Attorno alla tavola il racconto della vita

Intorno alla tavola si mangia, si dialoga, si mettono insieme esperienze e differenze. Ogni atto legato al cibo, anche il più semplice e quotidiano, esprime una cultura. E dentro ci passano gusti e sapori, ma anche storie e saperi.
22 Maggio 2015 | di

Elementare e universale. Semplice e complesso. Contemporaneo e tradizionale. Unico e sacro. Dentro al cibo, e attorno alla tavola, ci sta il mondo. Con tutto il suo caleidoscopio di colori, sfaccettature, narrazioni. A qualsiasi latitudine accada. In qualsiasi posto ci si trovi. In qualsiasi epoca si sia vissuti. A qualsiasi tavola si sia seduti: da quella del refettorio di un antico monastero sino a quella di un pranzo regale; dall’umile desco di una famiglia contadina fino al cibo sigillato delle mense aziendali e scolastiche. Ogni gesto, anche il più povero e quotidiano, porta con sé una storia ed esprime una cultura.

Attorno alla tavola si mangia e, al tempo stesso, si dialoga, si mettono insieme esperienze e differenze, si trova un accordo o ci si riconosce nelle reciproche disuguaglianze. Attraverso il cibo passano gusti e sapori, ma anche storie e saperi. Attorno al cibo possiamo scoprire la nostra storia personale e, insieme, quella della collettività. Esso è conoscenza, incontro e, prima di tutto, condivisione. Nell’antica Grecia il pasto principale era detto logodeipnon, vale a dire banchetto di parole. «Non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme» afferma Plutarco nelle Dispute conviviali. La parola convivio (dal latino, cum-vivere) mette sullo stesso piano il vivere insieme e il mangiare insieme. «A tutti i livelli sociali la partecipazione alla mensa comune è il primo segno di appartenenza al gruppo – scrive Massimo Montanari, storico dell’alimentazione –. Ancora oggi, in varie espressioni dialettali, la casa si identifica con il cibo: “Andiamo in casa”, nel lessico tradizionale romagnolo, vuol dire “entriamo in cucina”». Preparazione, assunzione, condivisione del cibo non sono altro che la grande metafora della vita. Ogni volta inedita. Tutte le volte carica di sorpresa e stupore. Nel cibo pronto sulla tavola, sia esso un piatto stellato che una semplice frittata con le erbette raccolte nei campi, possiamo scorgere una serie contagiosa di gesti d’amore.

Tavole del mondo Dallo spazio privato a quello pubblico, dalla famiglia al ristorante. Nella società occidentale sono cambiati tempi e luoghi in cui si consuma cibo. In Europa, in media, un pasto al giorno avviene fuori casa. Una volta la madre passava ore e ore in cucina, assicurandosi una famiglia forte di nutrimento e amore e affermando così il proprio ruolo di madre nutrice, perno della famiglia.

«Oggi non si condivide quasi più con i propri cari il cibo approntato in casa, dopo un duro e lungo lavoro di preparazione – spiega Mariagiulia Mariani, antropologa del cibo –. Si mangia fuori casa, cibo preparato da mani sconosciute o da industrie. Si pranza, in genere, con colleghi di lavoro, compagni di scuola, o da soli. Si può arrivare anche a mangiare in piedi, camminando, di fronte a un computer, in auto. Uno dei grandi cambiamenti nel nostro modo di alimentarci è la mercificazione del cibo, la perdita della sua sacralità.

Nelle società cristiane la croce viene spesso associata al cibo. Ci si fa il segno della croce prima di mangiare. La pagnotta porta una croce sulla crosta (che permette anche una miglior lievitazione). Nei Pirenei francesi, quando si rompe la cagliata, per fare un formaggio, si fa una croce con un palo di legno. Nell’islam si macellano gli animali e si inizia il pasto, bismillah, nel nome di Allah. Adesso, invece, anche le preparazioni più complesse e tradizionali (fare la pasta, il pane, il cuscus) sono svolte da macchine, in contesti industriali, con l’obiettivo di produrre e vendere prodotti sul mercato, traendone profitto».

E allora, che si tratti di prodotti scadenti o di alta qualità, lo scopo è il medesimo: fare profitto col cibo, sottraendolo ai contesti e alle relazioni umane che lo avevano visto nascere. Basta guardare anche al modo in cui il cibo viene consumato (senza pensarci, senza dargli importanza, senza condivisione) e anche sprecato. Se in molte culture si consuma il cibo insieme, nello stesso spazio e tempo, è altresì vero che il trinomio cibo, commensalità, convivialità assume forme distinte e, a volte, contraddittorie. La convivialità, insomma, non è sempre la regola.

«In svariate culture il cibo non viene consumato in compagnia – prosegue l’antropologa –. Ci sono regole molto precise che dettano la condivisione (il cibo deve circolare, alimentare un gruppo, sia fisiologicamente che simbolicamente), ma non si passa per forza attraverso la convivialità pensata, ad esempio, in Italia: parole, cibi e bevande che circolano attorno a una tavola. In Ecuador, sulle Ande, il cibo viene preparato e lasciato sulla tavola. Ci si serve quando si ha fame, uno alla volta, facendo attenzione che basti per tutti. Uscendo dal quotidiano, anche nella festa comunitaria dell’Inti Raymi, la festa del sole che si celebra in Perù, con parate di danze e musica, in prossimità del solstizio estivo, le comunità indigene consumano il cibo posto su un telo steso sulla terra. In una logica rigorosamente codificata, ciascuno è tenuto a portare la sua parte di banchetto (tuberi bolliti, uova, fave...), a disporla con cura, secondo un codice simbolico, prendendo quanto gli spetta. Si mangia seduti a terra, in piccoli gruppetti o ciascuno in un angolo. La chicha de jora, una birra di mais germinato, lubrifica il legame sociale. In Giappone, all’Izakaya, una sorta di bar da tapas di quartiere, ci si va da soli, per trovare la convivialità e la chiacchierata che fanno sentire meno la solitudine. Qui molti piatti sono immaginati e serviti per essere condivisi». Il cibo, inoltre, può creare e rinforzare il legame sociale. O identificarne la rottura. Dire che il cibo è convivialità non vuol dire che significhi, a tutti i costi, uguaglianza.

«Attorno alla tavola si stabiliscono, e riaffermano, le relazioni, anche di potere, all’interno della famiglia e del gruppo – insiste Mariagiulia Mariani –. Guardando una tavolata con occhio attento si capisce che non tutti i commensali sono uguali. Bisogna leggere e decodificare chi mangia cosa, con che ordine. L’atto del mangiare rivela la classe sociale e la gerarchia di genere. In India, la casta braminica (la classe sacerdotale) rifiuta di mangiare cibo preparato da caste inferiori. Pensiamo all’affezione smodata della borghesia per il galateo, a una commensalità molto costruita e rigorosa che non è per tutti, ma solo per iniziati, che crea esclusione di chi non conosce il codice. O ancora, alle campagne italiane: la donna non si siede a tavola se non alla fine del pasto, quando gli uomini sono stati serviti con le varie portate cotte a puntino. Ho osservato una cosa simile nei Paesi arabi: spesso le donne mangiano tutte insieme quando gli uomini hanno già terminato, dopo aver riservato i pezzi migliori ai maschi e ai piccoli».

Tavole di festa Donne che cucinano la zuppa e chiacchierano con i loro bambini. O che battono in solitudine il miglio nel grande mortaio. O ancora, mentre rimestano la grande pietanza per tutto il villaggio. Uomini e donne che insieme preparano la polenta, gruppi di amici che arrostiscono le castagne e cuochi affaccendati nella grande cucina scolastica. Gli sguardi dei bambini non mentono. E raccontano, con matite e pennelli, collage, pennarelli e pastelli, esperienze domestiche di convivialità e condivisione. A raccoglierle la mostra «Intorno alla mensa. Persone, cibi, tavole e feste negli sguardi infantili della PInAC» aperta fino al 31 luglio a Rezzato (BS).

«I bambini non hanno bisogno di concettualizzare – spiega Elena Pasetti, direttrice PInAC –. Quello che descrivono parte dal loro vissuto concreto. Non c’è simbologia, tanto meno metafora. In tutti i lavori si coglie il piacere del quotidiano e la positività nello sguardo. I bambini descrivono anche momenti pesanti: in questo caso è ancora più chiara la felicità delle relazioni che si sviluppano attorno al cibo».

Le 53 opere, realizzate tra 1969 e 2014 da bambine e bambini dai 5 ai 14 anni, arrivano da varie regioni d’Italia, da Repubblica Ceca, Slovacchia, Yemen, Africa centrale, Canada, Giappone, Perù e Turchia. «Siamo andati a cercare le rappresentazioni capaci di raccontare l’intorno, l’intreccio di relazioni, parole, gesti e funzioni legati al cibo – prosegue Pasetti –: famiglie ristrette o allargate ad amici e parenti; in pochi o in tanti; seduti su seggiole, cuscini, tappeti o sulla terra battuta. Intorno a grandi piatti comuni o a piccoli piatti individuali; su tovaglie o stuoie; nelle cucine, nelle sale da pranzo o all’aria aperta, suonando e ballando. Tutto ruota attorno alla mensa. Nei disegni la si riscopre come parola nel suo valore antico di tavola apparecchiata per la famiglia e i suoi ospiti. Mensa come pranzo condiviso che festeggia la fine della vendemmia o l’uccisione del maiale nelle culture contadine. Come quello della prima Comunione o di Natale».

Tavole di comunione C’è un appuntamento a cui non manca mai. È quello della cena a casa. Con la sua famiglia. Con lui, attorno alla tavola, la moglie e i quattro figli, dai 15 ai 22 anni. Luigi Ballerini è medico, psicanalista e scrittore. Nel libro I bravi manager cenano a casa (Emi) lancia un appello: difendiamo la tavola, in particolare la cena, occasione di incontro e narrazione, di scambio e condivisione. «La colazione si fa sempre più in fretta, tante volte non si fa. Il pranzo è ormai fuori casa. L’unico momento è quello della cena. Abbiamone cura. Consideriamolo alla stregua di un appuntamento a cui non si manca. Non è indifferente esserci o non esserci. Curiamolo nella sostanza e nella forma: non servono tovaglie di fiandra, ma nemmeno riserviamo la posateria più bella solo agli ospiti. E abbiamone cura anche nelle parole: con il cibo noi mangiamo, insieme, anche le parole dell’altro. Non sprechiamo quest’occasione: non facciamola diventare il momento, come spesso capita, per dire ai figli solo ciò che non devono fare».

La cucina e la tavola sono la rivelazione più sorprendente dei rapporti e della comunione. A partire dalle nostre case. Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1974 da militanti di Lotta Continua, aveva due bambini piccoli e uno in grembo quando il marito fu assassinato. «A casa nostra, le più grandi decisioni le abbiamo sempre prese a tavola, nella nostra cucina – racconta –. Il dialogo continua ancora oggi che i figli son grandi. Ci si racconta quanto fatto durante la giornata, ci si ascolta, si ride insieme. Attorno alla tavola abbiamo deciso cosa dire ai giornalisti che ci attendevano all’esterno del Tribunale, alla fine di ognuna delle udienze del processo per la morte di Gigi. Bastano dieci minuti per preparare qualcosa. Non è importante quello che si fa, ma far sentire che lo facciamo con amore. Quello che doniamo sono pezzettini di creazione, doni della Terra che vengono da Dio».

Grandi autori classici, da Omero a Shakespeare, raccontano di momenti conviviali. Numerose anche le mense che, nel racconto evangelico, hanno al centro il cibo condiviso: le nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, il racconto dell’Ultima Cena e, pure, il pranzo di Gesù con pubblicani e peccatori. Viene in mente il sedersi a tavola di papa Francesco con poveri e detenuti. Attorno alla tavola si svela, dunque, quell’umanità che, a qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca, in qualunque circostanza, sa abbattere i muri, rompere i silenzi, fino ad abbracciare anche il proprio nemico.

Mario Rigoni Stern la racconta bene nel suo Il sergente nella neve. «Busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune... Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. “Spaziba”, dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto... Così è successo. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esservi stata tra gli uomini... In quell’isba si era creata... un’armonia che non era un armistizio... Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini... Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere».    CARMELO MUSUMECI«Finalmente posate e piatti veri. E gli occhi dei miei figli»   Nove ore d’aria. Le prime, dopo ventiquattro anni. Per di più «blindate», perché sotto sorveglianza. Per giunta, non lontano dal luogo in cui, anche se vivo, ti par di non vivere. Carmelo Musumeci, 59 anni, è uno degli ergastolani ostativi (né permessi, né sconti) più famosi d’Italia. Almeno fino a due mesi fa, quando il Tribunale gli concede la «collaborazione impossibile o irrilevante». Per lui, siciliano di Aci Sant’Antonio (CT), rimane l’ergastolo, ma non più l’ostatività. L’ex boss, a capo di una banda che controllava la Versilia, viene catturato nel 1991: si è fatto giustizia da solo dopo essere sfuggito a un attentato. Non si è mai pentito o dissociato, né ha mai collaborato con la giustizia. Dal 2012 si trova a Padova, carcere Due Palazzi. Il 14 marzo scorso ottiene il suo primo permesso premio: può «recarsi alla casa di accoglienza “Piccoli Passi”, accompagnato da un operatore volontario. Il detenuto uscirà dalla Casa di reclusione alle ore 9 del 14 marzo 2015 e vi farà rientro alle ore 18 dello stesso giorno». Il momento più bello? Il pranzo con la sua famiglia. A tavola con la compagna, i figli e gli amici ha condiviso il cibo e il gusto delle cose fatte in casa che non ricordava più.

Msa. Che gusto ha un pranzo atteso da ventiquattro anni?Musumeci. Indimenticabile. L’ho aspettato così tanto che, la notte prima, ho temuto di morire. Sì, proprio come Mosè che contemplò la Terra Promessa dal monte Nebo, ma non poté entrarci. Invece, è accaduto. Dopo anni ho avuto finalmente davanti posate, bicchieri e piatti veri. Il mio angelo, Nadia (Nadia Bizzotto, responsabile della casa d’accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, a Bevagna, Perugia, ndr), mi ha invitato a fare un discorso. Ho provato a dire qualcosa, ma dalla gola non mi è uscito nulla. Sono riuscito solo a ringraziare e a dire che voglio loro bene. Mi hanno battuto le mani. I miei figli mi hanno guardato con uno sguardo bellissimo. Davanti a quegli occhi mi sono emozionato. Mi hanno ricordato i miei di quando ero ragazzo. Di quando ero buono e innocente. Poi abbiamo cominciato a mangiare. Tutti hanno portato qualcosa. Il mio angelo ha cercato i cibi che mi piacciono di più: c’erano cannelloni al ragù e con ricotta e spinaci, carne e verdure di tutti i tipi. La mia compagna ha pensato ai dolci; mia figlia alle bibite e agli antipasti; gli amici Mita e Francesco al pane fresco fatto in casa. Prima che arrivassi hanno addobbato la tavola della sala da pranzo. Tutto aveva un sapore buonissimo. Ho mangiato come un lupo affamato. Ho sentito il gusto delle cose fatte in casa che non ricordavo da un’eternità.

E i pranzi da bambino? Non ho mai avuto una vera e propria famiglia. Tanto meno il bacio di una madre o la carezza di un padre. Per desiderare l’amore lo devi prima conoscere. Eravamo poveri. Prima mangiavano i grandi, che portavano lo stipendio a casa e poi, se rimaneva qualcosa, i bambini.

In carcere? Il cibo in genere fa schifo. È poco, cucinato male e, quando arriva in sezione (in alcune carceri lo trasportano senza carrelli termici) sembra un pastone per galline. Solo i più poveri tra i poveri prendono la «sbobba»: devono nutrirsi. Molti detenuti cucinano da soli. Chi ha scontato vari anni ha lo stomaco ammalato. Mezzi e ingredienti sono pochi: qualche pentola, fornelli da campeggio, buona volontà e passione. Non cucino molto bene. Quando i compagni non mi mandano il «piatto» (tra noi si usa scambiare quello che cuciniamo), mi preparo degli spaghetti con pomodoro fresco, olio crudo, aglio, basilico e una spruzzata di pecorino sardo. Avrei altro da dire, ma sta bollendo l’acqua e devo buttare la pasta. L’ aspetto più brutto? Sono stato in cella singola per 20 anni. Ho mangiato sempre da solo, come un cane.

Mai pentito? Non ho mai collaborato con la giustizia, ma per nulla al mondo rifarei il male fatto.    

CIBO E CONDIVISIONE Nutrire tutti, il primo gesto di Dio

di Enzo Bianchi*  Cucinare e condividere il cibo a tavola sono azioni umane, solo umane, non conosciute dagli altri esseri viventi sulla terra. Sono, di fatto, «umanesimo», perché chiamano e richiamano uomini e donne e cantano il sapore del mondo.   ll luogo più familiare all’essere umano fin dall’antichità, il luogo dove ancora oggi è possibile esercitare quotidianamente la condivisione del cibo è la cucina, preludio indispensabile affinché la tavola si trasformi da arredo in strumento di comunione. Cucinare e condividere il cibo a tavola, infatti, sono azioni umane, solo umane, non conosciute dagli altri esseri viventi sulla terra. Sono, di fatto, umanesimo, perché chiamano e richiamano uomini e donne, convocano vegetali, animali e anche minerali (il sale...) e cantano il sapore del mondo. E tutto questo in un ritmo umano: non sempre si cucina allo stesso modo! C’è la cucina feriale, in cui ci si nutre con gioia ma nella sobrietà e nella frugalità; c’è il pasto, il banchetto che interrompe la ferialità dei giorni per dire l’insperabile, per celebrare ciò che accade poche volte e per grazia; c’è il pasto del bambino che abbisogna di cibi a lui adeguati; c’è il pasto per l’anziano, che richiede una misura e una leggerezza… Chi cucina ha anche l’arte di differenziare i pasti, perché c’è un pasto per ogni momento sotto il sole.

Ma il preparare da mangiare si intreccia con la dimensione spirituale e sociale della condivisione: come dimenticare che c’è gente che non conosce il pasto perché ne è priva e ha fame? La terra che ci nutre, certo, ma allora come mai molte persone, un sesto della popolazione mondiale, conoscono miseria, fame e non sanno cosa sia la cucina? Rischiamo di «banchettare lautamente ogni giorno», come il ricco della parabola di Gesù, e di non vedere quanti Lazzari restano fuori (cf. Lc 16,19 ss.) della tavola della terra. Eppure questa tavola dovrebbe essere un convivium per tutti e non dovrebbe escludere nessuno! Certo, uomini e donne nel mondo hanno bisogno non solo di pane, ma di tanti cibi per vivere (cultura, igiene, solidarietà, libertà, dignità), ma se non riescono neppure a vivere per mancanza di cibo, allora la loro vita non ha prospettiva né speranza.

Nella Bibbia, il grande codice della nostra cultura, all’inizio della storia dell’uomo il primo gesto di Dio è dare nutrimento a tutti: dare i vegetali, in primo luogo (cf. Gen 1,29), poi, dopo il diluvio e l’instaurazione di una violenza irrinunciabile per l’uomo, Dio permette agli umani di nutrirsi delle carni di animali, nella speranza che cessino di mangiarsi l’un l’altro (cf. Gen 9,3; Dt 12,15). Dunque cibo per tutti, non solo per alcuni, non per chi si accaparra gli alimenti per sé e li nega agli altri, perché in questo caso è come se si tornasse a uccidersi a vicenda, a mangiarsi a vicenda. Pensiamoci bene: non permettere all’altro di mangiare, per mangiare meglio e di più noi, equivale a nutrirci della sua stessa carne, la carne dei poveri! Nutrire se stessi, dimenticando la fame degli altri, dimenticando le generazioni future che abiteranno la terra, questa terra che è l’unica per noi umani, è uno scandalo, una vergogna! La terra – dovremmo ricordarlo – è di Dio (cf. Es 19,5; Lv 25,23), il che significa che è nostra, ma nel senso che è di tutti: tutti ne siamo custodi, tutti coltivatori, tutti nutriti da essa, senza diritto di prelazione per nessuno!

Che cosa allora, più del cibo, è strumento di comunione? La prima dimensione del condividere, della comunità, è il pane mangiato insieme che ci rende compagni (da cum-panis), e stare insieme alla tavola del mondo è la nostra prima vocazione, perché è quella che ci consente di vivere. «Non uccidere» significa non solo non impugnare un’arma per annientare l’altro, ma anche non impedirgli di mangiare ciò che io mangio, attraverso il funzionamento dell’economia e della finanza deciso e manovrato da noi ricchi. Nicolas de Chamfort nel XVIII secolo scriveva: «La società si divide in due classi: quelli che hanno più cibo che appetito e quelli che hanno più appetito che cibo». Purtroppo ancora oggi questa osservazione realistica è tragicamente vera, perché ci sono più Lazzari alle soglie del mondo opulento che ricchi i quali banchettano e gettano via il cibo in eccesso persino rispetto alla loro ingordigia.

*priore di Bose    FILM

Il pranzo di Babette. Tratto dal racconto di Karen Blixen, il film, preferito da papa Francesco, mette in scena l’intrecciarsi di cibo, convivialità e piacere attorno alla tavola.

La grande abbuffata. Quattro uomini mangiano fino alla morte. Cibo e thanatos sono la critica a una società in cui si muore per noia ed eccesso di benessere. Regia di Marco Ferreri.

Fanny e Alexander. La felicità massima è il pasto natalizio iniziale: il cibo si accompagna a umanità e tolleranza che torneranno solo alla fine. Di Ingmar Bergman.

Big Night. Si segue la preparazione delle pietanze consumate dagli ospiti. Nel finale lo chef protagonista e suo fratello cucinano una semplice frittata e la mangiano col pane. Prima di un grande abbraccio.

Lunchbox. I cestini da pranzo (i dabba), preparati con amore a Mumbai, permettono a due solitari di incontrarsi a distanza. Titesh Batra, 2013.    

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017

Articoli Consigliati

Lascia un commento che verrà pubblicato