Sant'Antonio trasloca...
«Ma con tutti i terremotati che già c’erano in casa nostra, bisognava proprio andare a cercarne altri di fuori?!»: ammetto che, prima ancora che a qualche malintenzionato in vena di polemiche, il dubbio era venuto pure a me. La Caritas Antoniana, infatti, ha accolto la richiesta pressante d’aiuto che proveniva dall’Ecuador, nell’aprile 2016 messo in ginocchio da un devastante terremoto magnitudo 7.8, che ha mietuto più di 600 vittime. Troppo vicini alle pressoché contemporanee scosse del Centro Italia per non rischiare di scatenare una guerra tra poveri!
Abbiamo accettato la sfida, e con francescana sfacciataggine ci siamo recati in America Latina. Ciò che abbiamo visto è presto detto, descrivibile in una manciata di parole ma che, ve lo giuro!, graffiano sanguinosamente l’anima: uomini e donne, anziani e bambini, mamme e papà, famiglie intere poverissime. Vivono («vivono»? È un verbo impegnativo questo, da queste parti…) in sparuti villaggi all’interno della foresta, raggiungibili solo percorrendo lunghe stradine di terra battuta che le piogge, numerose all’equatore, trasformano periodicamente in percorsi di guerra, tra fango e improvvisati fiumiciattoli.
Paradossalmente il terremoto ha fatto pochi danni da queste parti, perché ben poco c’era da danneggiare di tutta questa miseria: un pugno di casupole raffazzonate con cartone e bambù, esistenze umane la cui indegnità grida vendetta al cospetto di Dio, ragazzi intristiti che se chiedi: «Che cosa sogni per il tuo futuro?», ti guardano allibiti, quasi non avessero capito la domanda: «Futuro? Che cos’è? E io posso permettermi dei sogni?».
Ci è così capitato di cominciare a essere persino orgogliosi di questo sant’Antonio che «in fretta», come il Vangelo dice di Maria dopo l’annuncio dell’angelo, quando si reca dalla parente Elisabetta (Lc 1,39), ha lasciato la sua bella Basilica di Padova per andare tra questa povera gente, lì fin dove nessuno si era finora fatto vivo. E dove, a ragion del vero, nessuno nemmeno lo conosceva. Per donare ciò che, ai nostri occhi e alle nostre tasche, è ben poca cosa, un piccolissimo segno, una semplice casetta di bambù; ma che per la dignità di quelle famiglie è il minimo che manca.
È vero: concretamente il nostro soldo dato per questa gente è sottratto ad altri, magari ugualmente bisognosi (ma, non dimentichiamolo, i frati hanno tanti altri progetti di solidarietà, sia in Italia, e in Centro Italia, che nel mondo). Ma non è, forse, che nella contabilità divina del dare e dell’avere, il valore in grazia e benedizione della nostra anche più piccola offerta, che come lo spicciolo della povera vedova non si misura certo solo al cambio (Lc 21,1-4), viene supervalutato?
Dio non utilizzerà, no, non i nostri euro – quelli vanno esattamente dove li destiniamo –, ma il loro valore in amore sì, ovunque ce ne sia bisogno, traendoli ogni volta dal capitale di bene, dal tesoretto che alimentiamo anche con i nostri gesti? Vi sono «operazioni finanziarie» che il Padreterno fa a nostra insaputa, con quotazioni immisurabili da qualsiasi indice, quando sposta disinvoltamente il bene sulla mappa delle necessità! E ciò che noi doniamo con il cuore e con generosità va oltre l’obiettivo concreto del progetto a cui intendiamo contribuire, tracima le nostre possibilità umane.
Scusate, allora, se nelle fotografie scattate in quei giorni le persone ridono poco. Non è per mancanza di gratitudine, ma per il dolore. E l’incredulità: che domani mattina ci si svegli, e il sogno svanisca. Ma l’immagine del nostro grande Santo, appesa precariamente e un po’ storta alla parete di bambù, non lascerà loro dubbi. Dio non li ha assolutamente dimenticati. E neanche noi.