Sessantotto, il coraggio di sognare

I giovani di allora volevano cambiare tutto per rendere migliore il mondo. Cosa è rimasto del ’68 e di quel desiderio di futuro? I giovani di oggi hanno ancora il coraggio di sognare?
18 Giugno 2018 | di

«We want the world and we want it now», «Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso». A intonare la frase, Jim Morrison, leader dei Doors, rock band americana, nata tre anni prima di quel 1968 che cambiò il mondo. È il primo «urlo» contro. Contro istituzioni, regole, scuola e università, contro l’esercito e la guerra, contro la famiglia e tutto il resto. Lo slogan traduce quello che, in real­tà, i giovani in ogni angolo del mondo volevano: cambiamento, rivoluzione.

È sempre la voglia di futuro, pur tra errori e fallimenti, a rompere gli schemi scatenando le più grandi innovazioni dell’umanità. I giovani di allora non ebbero paura di cambiare tutto per rendere il mondo migliore. Erano ragazzi e ragazze che si emozionavano e si mobilitavano per guerre lontane; che sentivano come proprie le ingiustizie subite da altri; che si erano illusi, ed erano pure caduti, capendo però, alla fine, che la vera felicità non è solo un fatto individuale bensì collettivo. 

Cos’è rimasto del ’68 e di quella fame di futuro? Potrebbe accadere una nuova rivoluzione? E poi: i giovani di oggi hanno ancora il coraggio di sognare?  

Giulia Morini: abitare il futuro

«Quando sento parlare del ’68, mi accorgo di non saperne abbastanza». Giulia Morini ha 22 anni. Non ne aveva ancora 18 quando, nel 2014, ha fondato, con altri coetanei, la prima web radio per adolescenti fatta da adolescenti. Il nostro viaggio, cinquant’anni dopo il ’68, parte da qui: dai sogni e dai sognatori del Terzo Millennio.

Un briciolo di futuro è racchiuso pure nel nome del primo network di teenager in Europa: Radioimmaginaria. Rimanda, in fondo, proprio a quella lotta per avere l’immaginazione al potere di cinque decenni fa, a quell’«Immagina», tanto diretto quanto potente, che il movimento di protesta scriveva sui muri di tutte le città.

«Il ’68 fa parte di quella lunga serie di argomenti che non si affrontano mai nel programma di storia, a scuola, ma che effettivamente sarebbero quelli più importanti da sapere, perché ci aiuterebbero a capire molto di più del mondo in cui viviamo oggi – afferma Giulia –.

Un’immagine che mi viene in mente sempre quando si parla del ’68 è la folla di persone, studenti, operai e altre fasce della società, che riempivano le strade. Persone che stavano in piedi e protestavano per qualcosa che non andava bene, che volevano cambiare.

Molto spesso a noi adolescenti viene proprio fatto notare questo: che se anche una cosa non ci piace, se una legge non è giusta, se non condividiamo un ideale o le posizioni di un partito politico, il trovarci per protestare non ci viene neanche in mente. Sembra che non ce ne importi nulla. In realtà non è così.

Non scendiamo in piazza a protestare, e non aspettatevi che mai lo faremo, semplicemente perché non è nelle nostre corde, non è una modalità che ci appartiene. Ma la nostra voce la facciamo sentire in altri modi: attraverso la radio, il nostro pensiero non intrappolato nelle immagini, nei video e nei social.

Sembrerà assurdo, ma anche noi ci siamo presi la briga di fare una piccola rivoluzione, come tanti hanno fatto nel ’68, per far capire a tutti che un mondo senza adolescenti non deve più esistere, che per costruire un futuro migliore è importante ascoltare anche noi, perché vorremmo poter influire sulle questioni che ci riguardano. Perché, anche se non possiamo ancora votare, siamo noi quelli che abiteranno il futuro.

Di recente in America tantissimi ragazzi di ogni scuola hanno protestato contro l’uso non regolamentato delle armi. Stanno creando un movimento potentissimo e lottano per la vita. Forse quello che ci accumuna, noi e quelli che nel ’68 c’erano, è proprio questo sentimento di unione per un unico obiettivo: far valere le nostre idee, anche se a volte è difficile avere la sensazione di essere influenti.

“Quelli che hanno fatto il ’68” come dice mio nonno, hanno cambiato il mondo in cui viviamo, e finché anche noi continueremo a combattere per i nostri sogni, un legame con noi io ce lo vedo. Questa è la sensazione che mi rimane del ’68. Nel mio piccolo, spero di portare un po’ di “rivoluzione” anche nella mia vita».  

Dino Amenduni: il diritto a potersela giocare

E se chiedessimo a qualche teen­ager o studente universitario di raccontare l’impatto del 1968 sulle loro vite?

«Probabilmente risponderebbero “nessuno”, anche se tale versione non è del tutto corretta e le percezioni sono altrettanto importanti». Dino Amenduni, classe 1984, si occupa di nuovi media e orientamenti degli under 25.

«Volendo riassumere in due capisaldi (volutamente generici: anch’io so poco del 1968) – afferma –, punterei su un generale avanzamento dei diritti e la sottolineatura del principio dell’uguaglianza delle opportunità. Quest’ultimo è quello che i giovani del 2018 sentono forse come più distante, perché non attuato: il figlio dell’operaio ha gli stessi diritti del figlio del dottore?

Formalmente sì, perché non esiste una divisione per caste; allo stesso tempo, però, è difficile affermare che le possibilità di crescita personali e professionali siano uguali ovunque e per tutti. Si è, inoltre, spezzato un altro tipo di raccordo tra generazioni, quello che per decenni ha dato alla parola “futuro” un’accezione positiva: l’idea che i figli avrebbero avuto condizioni di vita migliori di quelle dei propri genitori.

Faccio un esempio: i precari combattono tra loro per piccoli “posti al sole”. Potrebbero invece raggiungere qualcosa in più dal punto di vista delle tutele e del reddito se fossero uniti nelle proprie battaglie, oserei dire “sindacalizzati” (parola che sempre più spesso non è associata ai diritti dei giovani lavoratori), se potessero dire qualche no in più.

Ma un precario che dice no a lavori sottopagati sa già che ci sarà qualcun altro al posto suo che si accontenterà delle briciole. La cristallizzazione di queste dinamiche ha generato un odioso corto circuito: i giovani sono accusati di essere poco sognatori, di aver perso lo spirito “rivoluzionario” del ‘68 e l’accusa parte da chi, in questi decenni, non ha fatto abbastanza per garantire ai propri figli (nell’accezione più ampia del termine) il semplice diritto “a potersela giocare”.

I sogni ci sono, le utopie anche, ma la priorità troppo spesso è quasi questione di sopravvivenza e quando si lotta per sopravvivere si ha poco tempo per guardare il cielo. A meno che questa lotta non diventi questione di vita o di morte: a quel punto non è detto che i giovani rimangano fermi, e non è detto che si muovano in modo pacifico».  

Mario Capanna: dall'«io» al «noi»

Del resto ogni nuova generazione, quando si affaccia sulla scena nell’età della giovinezza, tende a rimettere in discussione, in maniera più o meno radicale, la società che si trova di fronte.

Nutre una profonda speranza nei confronti dei giovani Mario Capanna, leader studentesco nel ’68, parlamentare europeo e deputato. Oggi fa il contadino e l’apicoltore.

«I giovani di oggi? Hanno fame e sete di futuro. Se tu porti loro argomenti di verità e attualità, si interrogano, chiedono, ti contestano pure. Ma sempre con grande passione e capacità critica, tutto fuorché in maniera superficiale. Sono io, in genere, che vado da loro nei luoghi dove si confrontano, dialogano: dalle scuole alle università.

Questo è motivo di speranza, anche se oggi la situazione è oggettivamente più difficile di allora. I ragazzi vogliono conoscere ed espongono pure le loro critiche verso quel periodo. Quella più ricorrente è di aver ottenuto poco o nulla per la scuola. A loro memoria, invece, nel 1969, proprio in seguito alle proteste e ai movimenti studenteschi, riuscimmo, chiedendo l’applicazione della Costituzione, a ottenere la liberalizzazione degli accessi universitari. Fu un grande successo.

Quando mi chiedono come poter cambiare il mondo, rispondo in maniera molto semplice: bisogna cominciare come cominciammo noi. All’inizio eravamo delle esigue minoranze; incontrandoci, parlando, ragionando insieme, diventammo molti di più. Oggi la sfida chiave è superare il solipsismo, l’isolamento individuale a cui spingono anche le nuove tecnologie.

Bisogna cominciare a pensare al plurale. Se si uniscono le energie, se l’“io” diventa “noi” si può essere capaci di qualsiasi azione positiva. Tra i giovani c’è poca cognizione, ad esempio, del concetto di solidarietà, vale a dire l’aiutarsi a vicenda. Se uno pensa di uscire dai propri problemi da solo, probabilmente non ci riuscirà.

Viceversa, se ne può venir fuori facendo politica, non in senso partitico, bensì mettendosi insieme, condividendo i problemi, i dubbi, le speranze. Questa è la politica nel suo significato nobile e alto. Solo se ricominciamo a guardare lontano, l’umanità potrà ricostruire la speranza di andare lontano.

Tutti questi ragionamenti arrivano dritti ai giovani. Che cosa non rifarei? Ci sono cose che farei in maniera diversa: starei più attento a non farmi imbrigliare dalle ideologie, come accadde invece negli anni ’70. Dopo la strage di piazza Fontana, in un clima di forte tensione, finimmo per “mettere il nostro vino nuovo in botti vecchie”. Pensavamo che, dandoci delle strutture di tipo ideologico, la nostra lotta ne uscisse rafforzata. Invece, non andò così».  

«Non è che l'inizio»

Molte delle questioni poste cinquant’anni fa sono ancora sul tappeto. Anzi, si sono ampliate e hanno acquistato maggiore spessore.

Secondo Paolo Pombeni, professore emerito di Storia all’università di Bologna, autore di Che cosa resta del ’68 (Il Mulino) «l’eredità non è nelle risposte e nelle proposte che allora furono elaborate. Non è neppure nel movimentismo come risposta alle ansie sociali che allora si seppero, in qualche modo, anticipare; mentre oggi ci si limita quasi a rincorrerle. È nella ripresa di quel grido profetico: “Non è che l’inizio”.

C’è oggi una lotta da continuare ed è quella per dominare razionalmente una transizione storica riuscendo ad approdare a nuove forme di equilibrio per la vita degli individui e delle comunità.

Toccherà, ancora una volta, alle giovani generazioni portarla avanti. Potrebbero avere un compito di importanza storica: riuscire a stabilizzare in senso positivo, a dare uno sbocco costruttivo alla grande transizione in cui ci troviamo immersi.

Quella svolta, rivoluzione, transizione che i giovani sessantottini intuirono in termini vaghi, è diventata palese, quasi palpabile. Se e quando riuscissero in questa impresa, le nuove generazioni potrebbero guardare con indulgenza e forse con qualche considerazione a quanto accaduto dal ’68 a oggi, riconoscendo che effettivamente quello… non era che l’inizio».

 

Nel Dossier altri approfondimenti: un'intervista a Marco Pratellesi, giornalista, condirettore di Agi e co-curatore di "Dreamers. 1968: come eravamo, come saremo" (Museo di Roma in Trastevere, 5 maggio – 2 settembre 2018), mostra fotografica e multimediale; l'intervento di Daniele Zappalà, giornalista di Avvenire, corrospondente da Parigi, che ci parla dei sogni dei giovani francesi di oggi. Il dossier completo nel numero di giugno 2018 del Messaggero di sant’Antonio o nella versione digitale della rivista. Provala ora!

Data di aggiornamento: 18 Giugno 2018
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