Va pensiero...
Gliel’ho promesso. Di parlare di loro. Di raccontarvi le loro storie e vicende. Di come si vive da cristiani in un Paese, in questo caso il Pakistan, a stragrande maggioranza musulmana: che è come dire recitare, proprio malgrado, il copione della mosca bianca o della pecora nera. Insomma, dell’«altro». Perché veste come te, parla la tua stessa lingua, ha gli stessi problemi quotidiani di sopravvivenza, ma ha una pecca inconfessabile: crede in un altro Dio diverso dal tuo. È molto preoccupato per i figli, come lo sei tu. Anzi di più, perché i suoi, soprattutto se femmine, rischiano la vita anche solo per frequentare la scuola.Mi hanno supplicato di spiegarvi come ci si sente, a essere minoranza, che non è ancora in sé una brutta cosa. Ma a essere minoranza costantemente sotto pressione, accerchiata e aggredita, obbligata a giustificarsi di esserci e di esserci lì: oggetti fuori posto, non graditi. Errori da cancellare. E questo sì, è una brutta cosa. Di cristiani perseguitati, ma anche fedeli di altre religioni, anch’io come voi ne ho sentito purtroppo molte. Anche perché papa Francesco non si lascia scappare occasione per parlarne. Ma poi avevo ogni volta altro a cui pensare e molto di più da fare per lasciarmene impressionare.
Ma, dopo il transfer all’aeroporto di Daha (Qatar), basta salire nell’aereo che deve portarti a Lahore, per scoprire che sei l’unico… occidentale a bordo. E gli sguardi indagatori degli altri passeggeri non lasciano dubbi a tal proposito. Per la durata interminabile del viaggio non ho mangiato, non mi sono mosso, quasi non respiravo pur di non attirare ulteriormente l’attenzione. Mi sentivo escluso dai loro affetti. Non facevo parte del loro mondo. Cosa vuol dire sentirsi minoranza! Se, oltretutto, sceso sul suolo pakistano e per tutta la durata del soggiorno in quella bella terra non puoi muoverti se non accompagnato dalla scorta armata né stare se non in alberghi trasformati in bunker di massima sicurezza, con i cecchini sul tetto a vegliare sui tuoi sogni, a questo punto provi sulla tua pelle anche l’altra parte che ti mancava: la paura. Non per un evento catastrofico naturale né perché sei ricco sfondato o hai combinato chissà che cosa. La paura perché credi in Gesù, e solo per questo puoi diventare bersaglio per il tiro a segno di qualche pazzo fanatico. Vi assicuro che l’accoppiata, minoranza e paura, da sola basterebbe a tentare il viaggio disperato verso l’Europa.
Eppure, ve lo devo raccontare, quelle comunità cristiane vivono, si ostinano a credere nel Dio di Gesù Cristo! Di una fede che mi ha fatto vergognare della mia. Di una speranza, concreta e alimentata da assunzioni di responsabilità ognuno secondo le proprie capacità ed età, per il bene di tutti. Comunità che vivono dell’essenziale e anche di meno, qualche volta. Ma ricche di ospitalità e umanità. Di bambini che ridono contenti, e di anziani che piangono le proprie sventure. Di donne sottomesse e svalutate, ma capaci di farsi carico del futuro e di rischiare i propri sogni (di istruzione, lavoro…). Vi devo raccontare di tutte le porte che si sono aperte per un saluto o un racconto, e dietro cui ho quasi sempre intravisto un sant’Antonio con Gesù Bambino in braccio appeso al muro. Ma vi devo raccontare anche dell’imam Azad che ci ha fraternamente accolto nella grande moschea di Lahore, condividendo preghiera e cibo. O dei grandi e dei piccoli che ci hanno accolti in una povera madrasa (scuola coranica) di Islamabad. Vi devo raccontare di avvocati, di ogni religione, che a proprio rischio difendono i poveri, di ogni religione. E il 13 giugno andrò a raccontarle anche a sant’Antonio queste cose!