Appaltare a mercenari le missioni di pace?
Nelle periferie geografiche del nostro mondo, soprattutto nell’Africa subsahariana, s’incontra di tutto. A parte i missionari, c’è tanta umanità dolente e poi faccendieri al soldo delle multinazionali, mercanti di pepite, ma anche i mercenari.Ricordo la lunga conversazione che ebbi, alla fine degli anni ’90, con Joe. Ci eravamo dati appuntamento in un bar di Nairobi, dalle parti di Westlands (un quartiere della capitale keniana). Magro, allampanato, barbetta a pizzo, sguardo simpatico, Joe aveva un passaporto sudafricano, ma in effetti era nato in Inghilterra dove aveva seguito tutti gli studi fino a intraprendere la carriera militare. Successivamente si era congedato dall’esercito di «Sua Maestà» per raggiungere la moglie sudafricana a Johannesburg. Avevo impiegato quattro mesi per poter combinare l’incontro.Joe mi era stato segnalato da un collega della stampa australiana, che lo aveva intervistato in Angola quando combatteva come mercenario della famigerata Executive Outcomes (EO). Joe disse subito che aveva deciso di chiudere la partita una volta per sempre con i cosiddetti «dogs of war» («cani da guerra»), appellativo attribuito ai moderni soldati di ventura che da anni imperversano nel continente africano. «Armati e viaggerai» era il loro motto. Nelle loro fila c’era di tutto: portoghesi, belgi, russi, inglesi, irlandesi, serbi, croati, ma anche africani dello Zimbabwe, Mozambico, Namibia. «È gente disposta a tutto per i soldi.Alle spalle di ogni mercenario c’è sempre una delusione: professionale, familiare, affettiva», mi raccontò Joe, mostrandomi la foto di sua moglie morta tragicamente nel corso di una rapina alla periferia di Johannesburg. Oggi Joe vive in una capitale africana dove dirige un’impresa di import-export. Nel corso della nostra chiacchierata mi raccontò che gli uomini dell’EO ai suoi tempi erano circa 2.500, molti dei quali veterani di guerre civili che hanno marcato la storia postcoloniale africana: Mozambico, Liberia, Namibia... Stando a un’inchiesta della rivista «New African», nel 1994, diciotto elicotteristi sudafricani che operarono in Angola avevano firmato un contratto da 18 mila dollari al mese. «Una cifra da capogiro – commentò Joe – ma il rischio è davvero grande».Personalmente, non dimenticherò mai l’esperienza vissuta in Sierra Leone quando, nel marzo del 1999, volai su un loro elicottero Mi8 carico di armi e munizioni. Avevo chiesto un passaggio per raggiungere l’aeroporto di Lungi dalla foresta dove avevo incontrato degli eroici missionari saveriani. Ero convinto che si trattasse di militari meticci dell’Ecomog, la forza d’interposizione dei Paesi della Comunità economica dell’Africa Occidentale, sotto comando nigeriano. E invece, chiacchierando a bordo con i due piloti e il mitragliere, scopri le loro vere nazionalità: due angolani e un eritreo. Il loro capo mi disse in perfetto inglese che appartenevano tutti e tre a una sorta di compagnia di sicurezza e che guadagnavano bene.Pensavano che fossi solo un giornalista, ma, quando rivelai la mia identità «missionaria», divennero affabili e addirittura cortesi. «Padre, credo che oggi io abbia fatto l’unica opera buona di tutta la mia carriera militare: ho preso a bordo un prete», disse l’angolano spiegandomi che uccidere per lui non era mai stato un problema.Ascoltando le sue parole capii quanto rischioso possa essere appaltare a società di mercenari le missioni di pace e di interposizione tra opposte fazioni come qualcuno vorrebbe in sede internazionale. Un’eventualità che, se dal punto di vista pragmatico ha indiscutibili vantaggi in termini di efficacia operativa, dall’altro ha ovvie controindicazioni di ordine morale. È bene parlarne senza ipocrisie e falsi pudori, se si vuole davvero scuotere le coscienze, combattendo la «cultura dell’indifferenza», denunciata da papa Francesco.