Andrea Segre: «Cambiamo l’ordine delle cose!»
Un meticoloso funzionario del ministero degli Interni opera in Libia per bloccare le partenze dei migranti verso le coste italiane, comprendendo via via nel corso della sua missione l’implicazione del suo lavoro per la vita delle persone. Ciò nonostante, dopo una crisi di identità e una sofferta tensione interiore, non torna sui suoi passi. È la vicenda di Corrado Rinaldi (interpretato da Paolo Pierobon), ambientata tra Padova, Roma e la Libia, al centro del film di Andrea Segre L’ordine delle cose, uscito nelle sale italiane il 7 settembre, dopo la prima ufficiale nella sezione «Proiezioni speciali» alla 74ª Mostra del Cinema di Venezia. L’aderenza al tema delle migrazioni, sottratto alla propaganda pro o contro l’accoglienza, è anticipatrice delle problematiche connesse ai centri di detenzione libici e al flusso dei migranti verso le coste siciliane, senza dimenticare i diritti umani celati dietro ai numeri di un fenomeno dilagante. Di questo e molto altro abbiamo parlato con il regista della pellicola, Andrea Segre.
Msa. Sei tornato su un tema da te già affrontato (in Io sono Li, La prima neve...). Avevi qualcosa da aggiungere?
Segre. Mancava il punto di vista di Corrado, cioè il fatto di raccontare la vicenda personale di un alto funzionario mentre si occupa di strategie migratorie. I protagonisti del mio film siamo noi con il nostro sguardo umanitario, spesso frettoloso, che non si ferma a pensare alle implicazioni delle azioni. La storia che ho costruito offre l’occasione per ragionare sul nostro ruolo e sulla nostra posizione di cittadini, facendo riflettere sul rapporto tra vita umana e politica e mettendo in collegamento quest’ultima con l’etica. Il contesto del film è, in questo senso, espressamente politico.
Il personaggio del funzionario sembra inizialmente non comprendere la portata e il dramma umano vissuto dai migranti. Poi la vicenda della giovane somala Swada (Yusra Warsama), che gli chiede aiuto, gli fa aprire gli occhi. Occhi che deve richiudere per esigenze istituzionali. Può essere quella che hai raccontato una storia verosimile?
Verosimile di certo. Abbiamo costruito il personaggio con meticolosità. Corrado ama la scherma, perché è una disciplina che richiede precisione. Nel suo lavoro ci tiene a fare le cose per bene. Se vogliamo usare un’espressione già utilizzata nel Novecento, Corrado è l’espressione della «banalità del male». Quella teorizzata da Hannah Arendt, nel suo caso riferita al nazismo, è una teoria che comporta un grande rischio per la nostra società: un continente che si rassegna, che abdica, che respinge, che non vuole vedere. Dobbiamo decidere oggi cosa vogliamo per il nostro futuro.
Qual è stato il processo che ha portato alla complessa sceneggiatura, scritta con Marco Pettenello, in cui il funzionario italiano si relaziona con una task force europea, con i dirigenti di un centro di raccolta di migranti a Sabrata e con la guardia costiera libica?
La scrittura è seguita a un lungo lavoro di ricerca attraverso tre direttrici: l’incontro con le persone che svolgono il lavoro di Corrado e che hanno raccontato il loro vissuto e le difficoltà lavorative; lo studio di testi, saggi, report, relazioni di Ong, che ci hanno permesso di capire il contesto geopolitico. Come terza pista abbiamo chiesto la collaborazione a uno scrittore e regista indipendente libico, Khalifa Abo Khraisse, che ci ha aiutato a entrare nel mondo nord-africano, anche se non abbiamo potuto girare in Libia. Le riprese sono state effettuate in Sicilia, mentre per le panoramiche dall’alto ci siamo spostati in Tunisia.
Come è stato costruito il personaggio di Swada, la ragazza somala che prova a scappare da un centro di detenzione libico per raggiungere via mare il marito in Finlandia?
Da dieci anni conosco la scrittrice Igiaba Scego; con lei, per l’associazione Asinitas, di Roma, abbiamo organizzato dei laboratori e degli incontri. È stata una delle persone a cui ho chiesto una consulenza per costruire il personaggio della migrante somala e per creare la sua pagina Facebook inserendo dei riferimenti che fossero veri.
Il resto dell’intervista nel numero di novembre del «Messaggero di sant’Antonio» o nella versione digitale della rivista.