Come glielo spiego
Questa foto è stata scattata molti anni fa. Nel Sud della Libia. L’uomo con i due cocomeri veniva dal Mali, sognava un’indefinita Europa. Era uno schiavo, i militari libici lo usavano per i lavori pesanti. Era in viaggio da due anni. Il nostro incontro è durato il tempo di questa foto.
A Padova vado a un corso di formazione per giornalisti, sui migranti. Ascolto con interesse: «Gli Stati sono una costruzione sociale, la Terra non ha frontiere». E quindi anche la parola migranti è sbagliata. Il momento della nascita è il più pericoloso: oggi, se nasci in Eritrea, sei fregato. Se nasci in Italia, è un’altra storia. Su uno striscione in ricordo dei martiri annegati il 3 ottobre del 2013 (368 uomini, donne e bambini in fondo al Mediterraneo, tutti eritrei tranne due) è scritto: «Proteggere le persone, non i confini».
Laura Zanfrini, sociologa delle migrazioni, cita Dionigi di Enoanda, filosofo greco epicureo del I secolo: «Il mondo abitato offre a tutti gli uomini capaci di amicizia una sola casa comune: la Terra».
Leggo che un filosofo contemporaneo, Giorgio Agamben, non ha firmato l’appello per lo ius soli perché non crede che si debba «essere orgogliosi» dell’idea di cittadinanza e cita una scritta apparsa sui muri di una calle di Venezia: «La patria sarà quando tutti saremo stranieri».
Esco dall’aula. Siamo a un passo dalla stazione, luogo d’incontro (nel bene e nel male) di uomini e donne delle Afriche, della molteplicità arabe, degli Orienti. Un collega mi dice: «Ci vai tu a spiegare loro che lo Stato è una invenzione sociale?». Come glielo racconto agli avventori di un bar di Padova che il mondo giusto è dove non ci saranno stranieri o dove tutti saremo stranieri? Posso spezzare il legame popolo, nazione, sovranità, cittadinanza? Al corso viene mostrato il linguaggio da brividi dei titoli dei giornali attorno ai migranti. Il corso è durato un pomeriggio, cinque ore, nessun giornalista azzarda una domanda, un dubbio, una perplessità. Siamo tutti politically correct? Chi li fa allora giornali e televisioni?
A casa, viene il ragazzo che ci rifornisce del gas. Ha un’aria da centro sociale. Piercing al sopracciglio destro, felpa scura, pantaloni larghi. Non so come, ma finiamo a parlare di migranti: «Li vedo, non fanno niente, ci prendono il lavoro e hanno gli Iphone in mano. A noi ci tocca farci un mazzo tanto per due soldi». Dico solo: «Non te la prendere con i migranti. Cosa faresti al posto loro?». E lui: «Se fossi un moretto verrei anche io qui. Mi danno la casa e i vestiti».
Sono passati anni da quando ho scattato questa foto al ragazzo dei cocomeri. Che fine avrai fatto? Io avevo un passaporto italiano e me ne sono andato. Lui era in viaggio da due anni. E, se gli è andata bene, ne avrà impiegati altri due per arrivare a Lampedusa. Come glielo spiego al ragazzo del gas che lo Stato è una costruzione sociale? Lo schiavo maliano lo ha imparato.