La porta degli umili
Umiltà, una virtù, come altre, da lodare tenendosene a distanza. Ma fino a quando se ne può fare a meno? O, in altre parole, si diventa umili quando proprio non resta altro atteggiamento da esibire? Una sorta di piano zeta, insomma?
Non mi riferisco solo al superpotente muscoloso che spara missili come confetti, ma anche al devoto pellegrino che, giorni fa, nel santuario dove mi trovavo, si è irritato perché un gruppo si soffermava qualche secondo in più in un passaggio del percorso; sorvolando poi sulle giaculatorie tra autisti, o su ciò che succede a bordo campo tra genitori di minicalciatori, fino all’impossibilità di qualcosa di vagamente costruttivo navigando su certi social network, nei quali pare debba prevalere l’invettiva e più ancora l’ignoranza, come lamentava Umberto Eco.
In qualche modo, siamo discendenza culturale di quell’Alberto Sordi che salutava con il celebre «gesto dell’ombrello» i lavoratori a lato strada, salvo poi cambiare repentinamento registro quando il motore in panne costringeva a filarsela.
Scrive sant’Antonio in un suo Sermone: «L’umiltà dell’ipocrita, non avendo radice nel cuore, vuole apparire grande nelle opere» (Domenica VIII dopo Pentecoste, II-7), cioè mediante una sorta di iperattivismo sbruffone, perfino comico, che fa sembrare vero e forte ciò che è solo gonfio e di facciata, contraffazione patetica che non fa mai bene. Mentre, invece, come chiarisce sant’Antonio nello stesso Sermone: «La radice dell’umiltà, quanto più è profonda nel cuore, tanto più è alta nelle opere», quindi autentica.
Possiamo ragionare di vera umiltà solo se essa parte dal nostro cuore, il quale, come ricorda ancora il Santo, «tra tutti gli organi, si forma per primo. Nel cuore è indicata l’umiltà: nel cuore questa virtù ha la sua dimora preferita» (Domenica III dopo Pasqua, IV-13). Viene da pensare, allora, che qualche volta noi seppelliamo il cuore sotto una montagna di cose e atteggiamenti che, a nostro parere, devono venire prima, a prescindere, perché sono nostro diritto. E crediamo che il cuore custodisca una riserva di sentimenti e di slanci da centellinare esclusivamente nella sfera privata, a beneficio di pochi o pochissimi. Una riserva che deve restare chiusa, e anche ben difesa, quasi armata.
Incalza il Santo nel medesimo Sermone: «L’umiltà deve nascere prima di tutte le altre virtù, perché essa è “la forma che riforma le cose deformate”». Stupisce questa definizione di umiltà come la «forma che riforma», quasi un metodo per la terapia dell’anima e della mente.
Forse anche Antonio lo percepì a livello personale ed esistenziale, nell’impegno precoce a dare una bella forma alla propria vita, come poi anche nel duro ministero di «riformare» il cuore di personaggi arroganti che non volevano riconoscere il proprio male.
Mi piace questo passaggio del Santo: «L’umiltà è la custode delle virtù, e chi la pratica custodisce il suo coraggio perché non fugga da lui, nulla essendo più fugace del coraggio» (Domenica XVII dopo Pentecoste, III-14). Ogni giorno sperimento quanto sia vera questa affermazione: le persone non cambiano veramente, quando trovano «coraggio», «forza di volontà», «carattere», bensì quando diventano umili di cuore, cioè quando si riconoscono per quello che sono senza artifici, quando si affidano e si fidano di una «forma nuova».
«O umiltà, se hai potuto piegare il capo della divinità nel grembo della Vergine poverella, che cosa c’è di tanto alto che non possa abbassare?» (Domenica XXI dopo Pentecoste, II-13). Hai ragione Sant’Antonio, tutti possiamo passare per la cruna dell’ago.