Uccise due volte
Se vi capita di storcere il naso su una sentenza emessa da un giudice, ci sarà sempre qualcuno che con tono professorale vi ammonirà: «Le sentenze non si commentano, si appellano» o, se sono inappellabili, «si applicano».
Eh, no. Anche se non siamo esperti di legge, consentiteci almeno la possibilità di esprimere un mormorio di dissenso, un’espressione di stupore, un minimo di critica e presa di distanza. Quello che non si riesce a far capire è che il rispetto per la magistratura non implica l’accettazione del dogma della sua infallibilità.
Dando per scontata la buona fede e la competenza tecnica della stragrande maggioranza dei giudici, non possiamo non renderci conto che certe sentenze risentono del clima sociale e politico del momento e che la toga del magistrato non lo mette al riparo dai mutamenti del mondo.
Nemmeno i codici sono così rassicuranti, vista la varietà di interpretazioni a cui sono soggetti nel tempo e, talvolta, nel medesimo periodo da tribunale a tribunale.
Ecco un esempio recente che immagino sia rimasto nella memoria dei lettori. Nel 2016 si consuma uno dei tanti orribili femminicidi di cui le nostre cronache sono purtroppo ricche. Un uomo uccide, strangolandola, una donna «colpevole» di voler troncare la relazione con lui.
Condannato in primo grado a trent’anni di reclusione, si è visto quasi dimezzare la pena in appello, grazie alla valutazione positiva della sua confessione e all’esito della perizia psichiatrica. In quest’ultima si legge che «la gelosia provata dall’imputato, sentimento immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione a causa delle poco felici esperienze di vita, determinò una soverchiante tempesta emotiva e passionale, considerata idonea a influire sulla misura della responsabilità penale».
E così, in un solo colpo, sono riemersi dal nostro passato il vecchio «raptus», chiamato oggi «tempesta emotiva», così utile per attenuare condanne per crimini violenti ai danni delle donne e, udite udite, anche se non nominato, il non dimenticato «delitto d’onore».
Quando la giustizia dimentica le vittime, le conseguenze possono essere davvero aberranti. Una gelosia non controllata, l’impossibilità a comprendere che la donna non è un oggetto di mia proprietà, l’aggressione fisica e psicologica sulla donna «ribelle», invece di essere delle aggravanti, diventano, in quanto conseguenza di tempesta emotiva, ragioni per ridurre la pena.
Non voglio girare troppo il coltello nella piaga, ma mi sembra che così facendo potremmo finire con il colpevolizzare la vittima che, con il suo comportamento, avrebbe scatenato la tempesta emotiva. I difensori degli imputati fanno, com’è giusto, il loro dovere, ma chi si batte perché in ogni momento del dibattimento la vittima, la persona offesa e i suoi diritti calpestati restino centrali e ben presenti?
Questo e gli altri articoli della rubrica di Fulvio Scaparro sono pubblicati nel "Messaggero di sant'Antonio" di carta e nella corrispondente versione digitale!