Nel leggere un libro, non possiamo che farlo dal nostro punto di vista. Soprattutto se quel libro, e questo lo è, offre più livelli di lettura molto coinvolgenti (grazie a una scrittura che procede implacabile, qua e là avvolta di dolcezza e persino ironia): lo leggi quasi fosse un romanzo, un diario personale, ma anche un resoconto clinico, a uso e consumo di una propria ricerca di autoterapia guaritrice. Il punto di vista di chi sta nel mondo della comunicazione è la fatidica domanda: del suicidio, se ne parla o no? Forse no, per via del paventato «effetto Werther», dal romanzo di Goethe, in base al quale raccontarne sui mass media porterebbe all’emulazione in altre persone.
O, forse, il problema vero è come parlarne. In questo libro a scriverne in prima persona è la stessa autrice: «Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta». Per la cronaca, buttandosi dal quarto piano di una palazzina. Poi si può, e si deve, scavare nella propria vita, in quella di coloro che ci stanno attorno, nelle risorse e negli errori della medicina, negli affetti che curano e nelle omissioni di soccorso per troppo affetto, ma il mistero rimane: perché?
Si può non condividere del tutto alcune conclusioni dell’autrice sui temi tanto dibattuti del fine vita, ma essere d’accordo con il bisogno di dare un senso: che di per sé non è solo trovarne una ragione o essere in grado di darne una spiegazione logica, è molto di più. È «un gesto politico», dice l’autrice: interrogarci sul nostro approccio a dolore, fragilità, bisogno d’aiuto. Ai margini angusti entro cui rinchiudiamo l’idea di una vita perfetta e realizzata. Da queste parti, oltre che a psicofarmaci e terapie varie, va ricercata una soluzione.