Federico Faggin. La coscienza non è un algoritmo
Nella Silicon Valley, in California, Federico Faggin arrivò nel febbraio del 1968 con una laurea in Fisica conseguita all’Università di Padova, per uno scambio di ingegneri tra la SGS-Fairchild di Agrate Brianza, in Lombardia, e la consociata americana Fairchild Semiconductor. Doveva rimanere sei mesi e poi tornare in Italia, ma un mese prima di rientrare, il management della Fairchild decise di cedere la sua posizione azionaria della SGS-Fairchild, e a Faggin fu offerto di rimanere, come racconta egli stesso nella sua autobiografia, dal titolo Silicio, edita in Italia da Mondadori. «Il primo progetto che mi fu affidato come ospite, al mio arrivo alla Fairchild – ricorda Faggin – fu lo sviluppo della tecnologia MOS con porta di silicio, Silicon gate technology, un’invenzione che finì per cambiare la storia dei semiconduttori perché diventò, in meno di vent’anni, la tecnologia con cui tutti i circuiti integrati del mondo furono fabbricati».
Tuttavia fu il suo secondo progetto a dimostrare la superiorità della tecnologia Silicon gate, e ad aprire una nuova strada. «Parlo dell’Intel 4004, il primo microprocessore al mondo, che progettai nel 1970-1971. Con il microprocessore, un computer diventò un pezzettino di silicio che si poteva incorporare in quasi tutti i prodotti per dar loro un briciolo di intelligenza. Piccolo, economico come consumo di energia e costo, e versatile per la sua programmabilità, il microprocessore ha aperto la strada a centinaia di migliaia di nuove applicazioni prima impensabili».
Msa. Nel percorso personale e professionale che conduce a diventare una figura leader nel proprio campo, quali sono gli errori e le ingenuità che si tendono a commettere?
Faggin. Gran parte dei miei errori sono nati dalle differenze culturali tra la Silicon Valley e l’Italia, e anche dal fatto che, non avendo studiato negli Stati Uniti, il processo di ambientamento e di comprensione sia dei caratteri delle persone che delle sottigliezze del linguaggio, non è stato organico. Mi sono trovato a dover «nuotare» al massimo delle mie forze senza un periodo di rodaggio. Ma questo processo è stato relativamente facile, soprattutto durante la mia vita di tecnologo e progettista che è durata fino alla fine del 1974. È stato più difficile quando ho cambiato carriera e sono diventato un imprenditore, dal 1975 in poi. Far partire una ditta da zero richiede molta più varietà di esperienze che non creare solo tecnologie e prodotti. Bisogna anche capire il mercato, le vendite, la produzione, la finanza, e come amministrare un’attività completa. Inoltre si deve saper scegliere il personale in campi fuori dalla propria esperienza. È stato lungo il mio percorso d’imprenditore che ho commesso più errori, ma che ho imparato anche molto di più.
Come ha coniugato creatività, passione e intraprendenza?
Mi piace pensare che ho sviluppato i tre centri fondamentali che, credo, siamo qui al mondo per integrare e armonizzare: la testa, la pancia e il cuore. Sono centri metaforici, ma rendono l’idea. La testa è il centro intellettuale della ragione, della creatività, dell’immaginazione, della curiosità e dell’intuizione. La pancia è il centro dell’azione, del coraggio, della volontà e della determinazione. E il cuore è il centro dell’empatia, della compassione, della cooperazione, dell’amore, delle emozioni e delle vere intenzioni. Il cuore è il solo centro che può armonizzare testa e pancia, e senza cuore gli altri due centri portano inevitabilmente alla competizione sfrenata, all’egoismo, al razzismo e all’arroganza. La guerra non viene mai dal cuore. A metà strada della mia vita d’imprenditore, ho avuto la fortuna che il cuore si è aperto in un’esperienza spontanea di coscienza espansa che ha finito per cambiare la mia vita. Questa e molte altre esperienze straordinarie mi hanno portato in una direzione inaspettata che perseguo da circa trent’anni, di cui gli ultimi dodici a tempo pieno.
Molti giovani sognano di cambiare il mondo. Le start-up si moltiplicano. Quali doti e competenze sono necessarie per essere un innovatore?
Occorrono testa, pancia e abbastanza cuore per non combinare troppi guai. Se avessimo già armonizzate queste capacità, non saremmo qui ad imparare. Quasi nessuno di noi ha capito fino in fondo come si fa a fondere testa e pancia nel fuoco del cuore. Quasi nessuno ha il cuore così aperto da poterlo fare naturalmente. E spesso il cuore è l’ultimo ingrediente da aggiungere alla mistura perché uno, tipicamente, parte o dalla testa o dalla pancia, e deve prima imparare a sviluppare e integrare queste due, e poi aggiungere e integrare il cuore e acquistare saggezza. Ci vuole una vita ben spesa per avvicinarsi a questa meta e capire quali sono le azioni concrete che portano al bene comune. Non è facile. C’è l’uomo forte che ama il rischio e l’avventura, ma disdegna l’intellettuale e spesso ha poco cuore. Oppure c’è l’intellettuale che vive solo nella sua testa, ma non ha coraggio, e sovente si sente superiore e spesso è carente di cuore. Poi ci sono persone dal buon cuore, ma senza il coraggio, la razionalità e l’ingegno che possano amplificare l’impatto delle proprie azioni per il bene comune. Per essere completi, non basta avere un solo centro sviluppato, e nemmeno due. Per raggiungere il massimo potenziale, tutti e tre i centri devono co-evolvere lavorando assieme. Solo allora la vita può diventare spontanea, senza ansia e senza sforzo. Non è certamente necessario diventare un imprenditore di successo o un ricercatore famoso per arrivare alla meta. Ci sono mille strade che portano alla stessa destinazione, e ciascuno deve scoprire la sua guardando con amore dentro di sé. Spesso è necessario prendere una strada sbagliata per accorgersi di ciò che è importante nel proprio sviluppo. Il vero successo sta nel fare un progresso spirituale, non materiale, e nemmeno intellettuale. Il che non vuol dire disprezzare il successo, magari perché uno non sa ancora affrontare le proprie paure. Spesso l’esperienza del fallire quando uno ci ha messo l’anima per avere successo, può insegnare molto di più che quella di riuscire. Ma fallire per imparare non può essere una scusa per non mettercela tutta. La strada giusta è molto stretta.
Quali innovazioni possiamo attenderci in questo XXI secolo, in grado di proiettare il mondo verso un’ulteriore evoluzione?
Credo che la rivoluzione cruciale che può e deve avvenire in questo secolo è capire finalmente che non siamo macchine; che la vita, dal batterio più umile all’uomo, non è un algoritmo e va rispettata in tutte le sue forme; che il computer e il robot dotato di intelligenza artificiale non sono e non saranno mai coscienti; che la coscienza e il libero arbitrio non fanno parte di questo mondo fisico, ma esistono in una realtà più vasta che per il momento ignoriamo. Parlo di scienza ora, non di religione, anche se molte religioni credono nell’esistenza di una realtà più vasta. Quando si parla di questa realtà, credo che l’unico modo di scoprirla sia attraverso l’esperienza vissuta che ciascuno di noi deve esperire, non di credere perché qualcuno ci ha detto che funziona così. Occorre capire la vera natura della vita e della coscienza attraverso l’esperienza, non la dottrina. Bisogna diventare esploratori della propria coscienza e non accontentarsi di credere senza fare lo sforzo di capire attraverso la sperimentazione in prima persona. Solo così si potrà costruire sulla forza dell’esperienza, che è conoscenza diretta, invece di ripetere nozioni astratte. La capacità di esperire è proprio ciò che ci distingue dalle macchine. Le macchine imitano l’esperienza, esattamente come facciamo noi quando recitiamo a memoria senza capire. Per crescere bisogna capire, e per capire bisogna sperimentare in prima persona. L’amore si conosce amando, non leggendo un libro, il coraggio si conosce rischiando, e l’intuizione e la creatività si sviluppano aprendosi al mistero, facendosi domande intelligenti, e chiedendo aiuto alla parte più vasta di noi che può guidarci. Penso proprio che saranno la rivoluzione informatica e lo studio della biologia quantistica, più che l’esplorazione spaziale, a insegnarci chi siamo veramente. Dobbiamo scoprire con le nostre forze che siamo incommensurabilmente più intelligenti dell’intelligenza meccanica dei computer, per quanto potenti essi siano, e dobbiamo aprirci alla vera dimensione spirituale che è la nostra eredità. Spero che questo secolo possa essere l’era della coscienza, l’era del risveglio spirituale quando l’uomo scoprirà che la coscienza non è un algoritmo.
Per comprendere meglio la coscienza, lei ha dato vita, con sua moglie Elvia, a una Fondazione. Ritiene che la coscienza umana sarà trasferibile o imitabile nei robot?
La coscienza non è trasferibile perché non è una cosa; è ciò da cui nasce ogni cosa. Secondo la teoria che sto sviluppando con grande passione assieme al famoso fisico teorico Giacomo Mauro D’Ariano, la coscienza è ciò da cui emerge l’informazione quantistica, e dall’informazione quantistica emerge poi la fisica quantistica, e dalla fisica quantistica emerge la fisica classica. La fisica dei computer digitali è la fisica classica, la fisica delle macchine che possono eseguire algoritmi. La coscienza, nella nostra teoria, può esistere soltanto nel mondo quantistico e può interagire solo con organismi viventi che sono strutture sia quantistiche che classiche. Il robot non potrà mai essere cosciente per conto suo, benché si possano immaginare varie forme di cyborg con maggiore forza fisica e intelligenza meccanica dell’uomo. La capacità della comprensione umana è incommensurabile con la velocità algoritmica e la grande memoria digitale dei computer, anche se queste sono molto più vaste di quelle umane. Sarebbe come confrontare un numero finito con uno infinito. La macchina è complementare all’uomo anziché essere migliore dell’uomo. Macchina e uomo insieme potranno fare cose che ora sono impensabili. Ma sarà sempre l’uomo a controllare la macchina, nel bene e nel male. Se le macchine finissero per affliggerci, sarebbe solo perché l’umanità è stata irretita da uomini malvagi che sono riusciti a controllare il resto dell’umanità con le macchine controllate da loro. Dobbiamo tenere gli occhi aperti affinché questo non succeda.
Il fatto di essere italiano ha mai costituito un problema per lei?
Nella Silicon Valley, la maggior parte dei residenti sono immigrati da altri Paesi e da altri Stati dell’Unione. Mi sono sentito meno straniero qui che non ad Agrate Brianza, venendo dal Veneto dove ero nato e cresciuto. Ogni tanto qualcuno ha fatto dello spirito sulla mafia o sull’incapacità degli italiani di governarsi, cosa che però facciamo anche fra noi. Indubbiamente c’è una vena razzista, soprattutto negli Stati del Sud, ma nella Silicon Valley non ce ne accorgiamo.
Lei crede che essere straniero in un altro Paese limiti il percorso per l’affermazione personale?
Se una persona arriva già cresciuta ed educata in un altro Paese per lavorare qui negli Stati Uniti come scienziato o ingegnere, l’inserimento è facile. Per altri settori è più facile inserirsi se uno frequenta almeno l’università in questo Paese. Parlo di attività dove capire a fondo la cultura e avere una buona cerchia di conoscenze è davvero importante. Molto dipende anche dalla personalità. Più estroversa è la persona, più facile è l’inserimento. Sono convinto che l’America ancora oggi offra più opportunità di qualsiasi altro Paese al mondo perché è particolarmente meritocratica. D’altro canto, proprio perché gli Stati Uniti sono diversi dall’Italia, offrono un forte contrasto che può far capire meglio quei pregiudizi della cultura italiana che sono così radicati da non essere facilmente visibili a chi rimane in Italia. Questo è un grande pregio per chi dà valore alla propria crescita spirituale.
Come vede il futuro della società italiana?
L’Italia ha perso molto terreno negli ultimi venti, trent’anni rispetto ad altri Paesi che hanno abbracciato il cambiamento e la globalizzazione con più coraggio, grinta ed entusiasmo. La scarsa adozione delle tecnologie digitali, per esempio, è stato un punto dolente, ma anche la mancanza di tante riforme che hanno scoraggiato gli investimenti dall’estero. L’Italia ha molto da dare, e mi si stringe il cuore quando vedo tanti giovani disoccupati o sotto-occupati. È difficile recuperare l’entusiasmo e il tempo perduto quando un giovane non ha potuto utilizzare bene le sue energie imparando, con un lavoro stimolante, da persone capaci. La voglia di reagire e combattere deve partire da dentro, e ci sono molte belle iniziative. Ho apprezzato come Milano abbia saputo gestirsi bene. Ho trovato la città trasformata in meglio negli ultimi dieci anni, e questo progresso è un buon segno che può essere imitato. Milano è certamente la città italiana al livello europeo più elevato, e mi auguro che molte altre comunità prendano ispirazione dal suo esempio per trasformarsi. La capacità innovativa e fattiva certamente non manca in Italia.
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