Discarica d'Europa
La Turchia è ormai la principale destinazione dei rifiuti urbani dell’Europa. Lo conferma l’Eurostat nel suo report: nel 2019 il volume dei rifiuti destinati al Paese del Bosforo ha superato la soglia di 11,4 milioni di tonnellate, vale a dire che di fatto la Turchia importa il 30 per cento del totale di rifiuti di plastica prodotto ogni anno sul territorio europeo. Secondo un report preparato nel 2021 da Greenpeace, arrivano ogni giorno in Turchia 241 furgoni pieni di plastica dall’Europa, con un aumento pari al 13 per cento rispetto l’anno precedente. L’associazione ecologista internazionale sottolinea come «la mancata trasparenza, i controlli precari e gli alti introiti economici» siano i tre principali motivi per spiegare la situazione. Ovviamente a questa lista va aggiunto il fatto che nel 2017 il governo cinese abbia deciso di non ricevere più i rifiuti urbani europei. Così la Turchia è diventata la principale destinazione della plastica eliminata in Europa.
Eppure, nemmeno in casa propria la Turchia pare essere in grado di «fare bene i compiti». Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD), infatti, soltanto il 12 per cento dei rifiuti prodotti ogni anno viene riciclato. Per l’ex sottosegretario del ministero dell’Ambiente, Mustafa Öztürk, in Turchia non esiste un corretto e ancorato sistema di raccolta differenziata: «Carta, organico, plastica e vetro finiscono negli stessi bidoni. Il 30 per cento della plastica riciclabile si perde in questo grande calderone. Per compensare questa perdita sarebbe necessario impiegare personale, ma si tratterebbe di un metodo costoso. Quindi il governo ha deciso di importare la plastica europea». Così la Turchia è diventata la destinazione principale per l’Europa nello smaltimento della plastica, guadagnando i soldi dai Paesi europei e compensando il vuoto dovuto alla mancata raccolta.Tuttavia, secondo Sedat Gündoğdu, professore all’Università di Çukurova, in Turchia attualmente ci sono poco più di 5 mila centri di riciclo, un numero non sufficiente per far fronte a questa grande quantità di rifiuti provenienti dall’Europa: «Nell’80 per cento dei casi che ho analizzato, la qualità della plastica importata risulta molto bassa: per questo le aziende decidono di abbandonare questi rifiuti nelle zone disabitate, oppure di bruciarli».
Nel mese di marzo di quest’anno, il giornalista investigativo Kit Chellel, installando un sistema di tracciamento a tre bottiglie di plastica è riuscito a seguire il loro viaggio. Una di queste, partita da Londra, ha attraversato l’Olanda, la Germania e la Polonia e infine è arrivata nel Sud est della Turchia. Chellel, che lavora per «Bloomberg», ha chiesto ai suoi colleghi sul posto di trovare la bottiglia. Ciò che hanno scoperto i colleghi turchi ha confermato le numerose denunce avanzate da Greenpeace. In una zona disabitata, fuori dal centro città di Adana, hanno trovato una montagna di rifiuti abbandonati, dove c’era anche la bottiglia inglese. A onor del vero, già un anno prima «France 24», in un suo servizio, aveva mostrato come venivano dispersi i rifiuti ma anche bruciati proprio in quella medesima zona.
«Rifiuti umani» invisibili
Ma la grande storia dei rifiuti urbani in Turchia ha un ulteriore aspetto molto importante da raccontare. La quasi inesistente raccolta differenziata urbana, ovviamente, rende molto difficile il riciclo e crea un’enorme quantità di rifiuti non recuperabili. E i «figli» di questo grande problema sono i raccoglitori informali di rifiuti. Gli ultimi degli ultimi. Scarti tra gli scarti. Sono circa 30 mila le persone invisibili che raccolgono e differenziano i rifiuti domestici di 16 milioni di persone a Istanbul. «Lavoro senza contratto, fino a 16 ore per l’equivalente di 10 dollari al giorno» racconta Mustafa Yaşar, uno dei raccoglitori, quasi tutti turchi di condizioni sociali molto precarie, oppure curdi emigrati dalle zone povere dell’Est dell’Anatolia ma anche georgiani, iracheni, bangladesi, afghani, siriani e immigrati africani sprovvisti di documenti. Non hanno dimora queste persone, e dormono ammassate dentro quei 1.250 centri di raccolta sparsi per la città, a costante contatto con l’immondizia. Tra loro non mancano anche donne e molti bambini.
Ali Mendillioğlu, presidente dell’associazione di categoria legata al più grande sindacato confederale del Paese, DİSK, racconta che la storia comincia nel 2004 quando, in ragione del processo di adesione all’UE, la Turchia decide di regolamentare il settore dei rifiuti generati dagli imballaggi. Tuttavia non si riesce a raggiungere l’obiettivo e il riciclo viene imposto solo ai centri commerciali e al comparto pubblico. Dunque, ancora oggi, questi lavoratori invisibili fanno il grosso del lavoro. Secondo Mendillioğlu, lo Stato, con il supporto di importanti gruppi finanziari, vi investe parecchio denaro e favorisce situazioni di monopolio che rendono ancora più precaria la condizione dei lavoratori di base: «Non dovrebbe esistere questo lavoro e noi dobbiamo lottare per eliminare le cause che lo generano. La repressione, l’instabilità economica e l’imprevedibilità delle cose nel nostro Paese causano questa condizione. Finché ci sarà una palude ci saranno sempre dei moscerini. Il nostro problema è quella palude». Mendillioğlu sottolinea che questo lavoro è un sistema di sfruttamento ma anche una sorta di rifiuto di fatto di quelle migliaia di lavoratori stranieri senza documenti. Nel mese di settembre del 2021 la Prefettura di Istanbul ha avviato un’operazione di confisca all’interno di questi posti di lavoro «illegali» e, in contemporanea, la polizia ha preso in detenzione provvisoria circa 400 lavoratori.
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