Mandi, Sant’Antoni di Glemone
Devo cambiare punto di vista. Questo è un altro universo, un altro mondo, sono altre abitudini. Questa è, come tutte, una terra diversa.
Quest’aggettivo, in queste valli, ha un senso. La devozione a Sant’Antonio, qui, è diversa. Gemona, Friuli, nord-est dell’Italia. Dalla finestra del convento si vedono le montagne dell’Austria, le Alpi Giulie sovrastano il paese. C’è vento. Mi raccontano che, sul terrazzo di pietra dove sorge il paese, il vento corre di continuo.
Finora, nel mio viaggio infinito per raccontare di Antonio, sono quasi sempre andato al Sud. Dove la fede è fisica, esibita, gridata. Si piange di fronte al Santo, si toccano le sue vesti, si mostra dolore e felicità. «Qui, invece, la devozione è individuale. Una storia privata, riservata», mi avverte padre Celestino, 74 anni, predicatore per decenni, ora superiore del santuario di Gemona.
Questa è gente di orgoglio e silenzi. Cado negli stereotipi, me ne rendo conto, ma io sono davvero salito fin quassù dalla Lucania e sono spaesato. Questi sono friulani, furlans. È una patria, la piciule patrie. Si parla in lingua in queste montagne. Ci si saluta con mandi, «ti affido a Dio». E Antonio è Sant’Antoni di Glemone.
Salgo a Gemona perché qui, ottocento anni fa, è sorto il primo santuario ad Antonio. La sua prima chiesa. Costruita prima che a Padova. Andate a vederla: come la Porziuncola di Assisi, le sue rovine sono all’interno della basilica, quasi al centro della grande navata, a fianco dell’altare del nuovo santuario. Devo proprio raccontarvi la storia di Antonio a Gemona.
Antonio, negli anni ’20 del 1200, era ministro della Provincia francescana del Nord italiano. Un territorio che, da Milano, si spingeva oltre le Alpi orientali. A Gemona vi era già una piccola comunità di frati. Vivevano in capanne di frasche. Antonio volle che costruissero casupole in pietra e una piccola cappella.
Si fermò il tempo per vederne la costruzione, passò giorni in una piccola cella e fece uno strano miracolo. I frati avevano bisogno di una mano per trasportare i sassi necessari all’edificazione della chiesetta. Chiesero aiuto a un contadino che stava passando su un carro tirato da buoi.
L’uomo volle farsi beffe di Antonio e, indicando il figlio addormentato, disse che era morto e stava andando al cimitero a seppellirlo. Il contadino proseguì, fermò il suo carro e cercò di svegliare il ragazzo per ridere dei frati. Il figlio era morto per davvero. Il carrettiere, disperato, tornò da Antonio e lo implorò. Il Santo benedisse il giovane. Che tornò in vita.
I frati, con l’interruzione di qualche decennio fra ‘700 e ‘800, sono sempre rimasti qui. Nella cripta del Duomo, su una pietra, vi è inciso il segno di San Bernardino: JOS, Jesus omnibus salvatur.
Storia di secoli, per Antonio in Friuli. Dai paesi del Tagliamento si saliva a Gemona per pregare il Santo. In carro si veniva da Tarcento, si scendeva dal Nord. Il santuario si affollava nei martedì che precedevano il giorno della sua festa. Per i settecento anni dalla nascita del Santo, nel 1895, raccontano cronache entusiaste, arrivarono a Gemona ventimila pellegrini.
I frati conservano una grande collezione di ex-voto: quadretti, cuori di argento, fotografie, bastoni, tracce di una fede che vuole ringraziare per una guarigione, per una salvezza. Nel museo del Duomo, sono conservati antifonari preziosi: in uno di essi vi è la prima raffigurazione, mi dice Gabriele Marini, di Antonio. Immagine dipinta a fine del 1200.
Storia di soppressioni: nel 1767, Venezia ordina lo sgombero del convento; a fine ‘700, la chiesa è caserma dei soldati francesi. Ma il paese ha bisogno del Santo. Non dimentica. I frati, i francescani minori, tornano nel 1845. Nei primi decenni del ‘900 viene progettato un grande santuario: un «tempio impossibile» che non andò oltre disegni maestosi e provocò conflitti con la parrocchia di Gemona. Alla fine non se ne fece di niente.
Il terremoto, l’orcolat, l’orco cattivo, rase al suolo il santuario. I frati si salvarono, crolla il campanile, viene giù il tetto della Porziuncola friulana, il convento è macerie. Solo la cappella della Madonna del Rosario rimane in piedi. Ancora una volta Antonio fu tenace: non se ne andò. I frati non se ne andarono.
Un mese dopo il sisma già fanno rintoccare le campane. Nel giorno del Santo, il 13 giugno del 1976, la processione si incammina fra le rovine del paese. I gemonesi avevano le maniche rimboccate, la ricostruzione era già cominciata.
L’articolo completo è disponibile nel numero di luglio-agosto 2017 della rivista e nella versione digitale.