Santuari, metafora della nostra esistenza
Sanctuarium in Ecclesia è la lettera apostolica (1 aprile 2017) con cui papa Francesco trasferisce le competenze sui santuari dalla Congregazione per il Clero al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, presieduto da monsignor Rino Fisichella. Si tratta di un’iniziativa personale (motu proprio), non riducibile a una semplice operazione burocratica. Essa suona piuttosto come riaffermazione del valore dei santuari («segno peculiare della fede semplice umile dei credenti, che trovano in questi luoghi sacri la dimensione basilare della loro esistenza credente»); della pietà popolare («autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del popolo di Dio») e del pellegrinaggio («farsi pellegrini è una genuina professione di fede»).
Il rettore Svanera: «questi luoghi fanno percepire il cuore che si scalda» Ne è convinto fra Oliviero Svanera, rettore della Basilica del Santo. «Papa Francesco – afferma – è coerente con la sua attenzione per la pietà e la religiosità popolari, ora rivolte al mondo dei santuari, in genere meno considerato rispetto al mondo più ampio delle parrocchie. In realtà, com’è detto nell’incipit della lettera, prima della nascita delle parrocchie e della struttura ecclesiale come la conosciamo, i luoghi dove i primi cristiani si riunivano erano le tombe dei martiri, i posti legati alla vita di Gesù e di Maria e poi quelli che hanno avuto particolare significatività per il compiersi di alcuni eventi.
Metafora della nostra esistenza cristiana La lettera parla dei santuari come metafora della nostra stessa esistenza cristiana. Essa contiene spunti, pur sintetici e ripresi da documenti sul tema, che spostano l’obiettivo su aspetti legati alla sorgente della nostra fede. Parlare dei santuari significa andare all’esperienza originaria della nostra fede, che è in Gesù e in chi poi ne ha prolungato la presenza: gli apostoli, i martiri... perché sono riferiti alla solidità della nostra espressione di fede». Non si può intravvedere nella lettera anche la constatazione che le chiese sono sempre meno frequentate, mentre cresce il numero di chi va pellegrino ai santuari? «Non la vedo così. Che i santuari si segnalino per una presenza numericamente rilevante, è vero. Questo però ci interroga in positivo, e può diventare una proposta per l’intera comunità cristiana, quindi anche per la parrocchia. La gente accorre ai santuari forse perché – penso a sant’Antonio – c’è la sensazione viva di un’amicizia e l’evento viene percepito come reale. Sono luoghi che trasmettono la presenza del risorto e fanno percepire il cuore che si scalda.
Luoghi in cui ritrovare noi stessi e Dio Quando si mette la mano sulla tomba del Santo o quando i frati portano in giro per il mondo le sue reliquie, le persone avvertono in esse la presenza viva del Santo. I santuari riescono a darti la consapevolezza che Maria (o il santo) ti accompagna, ti protegge, ti custodisce. Questi sono luoghi, ha sottolineato il Papa, in cui attraverso i sacramenti, la preghiera, la celebrazione eucaristica, il silenzio, la dimensione di mistero, ritrovi te stesso e Dio. Essi offrono la possibilità di una sosta che spezza il ritmo frenetico della nostra vita. Sono luoghi in cui si rivivono le beatitudini; dove si viene con la sofferenza, le difficoltà della vita percependo che Gesù è il guaritore, attraverso Maria e i santi. Tutto questo vissuto diventa un paradigma, un messaggio per le nostre comunità cristiane. La mia non è una critica, ma le parrocchie a volte sono dispersive, travolte da una serie di attività organizzative che forse fanno perdere il senso vero della dimensione della fede come incontro con Cristo. Con le loro iniziative, anche di carità, fanno magari crescere la dimensione di famiglia e di fraternità, mantenendosi a volte in una dimensione orizzontale. Mentre il santuario, lo dice il nome stesso, richiama la dimensione verticale da cui viene anche il senso della carità, la carità di Cristo. Dovrebbero esserci maggiori sinergie tra santuari e parrocchie, in comunione. Invece di guardare alla reciproca ricchezza, a volte si agisce con spirito di competizione, supponenza e non di valorizzazione reciproca».