Il terrore della povertà, il terrore della solitudine, richiamano la madre di tutte le paure: quella della morte. Ma l’antidoto non è aggrapparsi alle persone o accumulare beni o denaro.
Essere fecondi non è solo generare vita biologica, ma coltivare la vita, custodirla e proteggerla. Ed è solo quando la nostra vita genera vita bella intorno a noi, ed è fertile per qualcun altro, che siamo davvero felici.
La tristezza, se coccolata a lungo, si installa nei meandri della mente e non se ne va più. E diventa sfiducia che genera disperazione, cioè la convinzione che non sia possibile un cammino verso la gioia.
La debolezza che ci abita non è una malattia di cui dovremmo liberarci, è piuttosto la condizione che caratterizza la nostra bellezza e la nostra ricchezza più vere.
Siamo liberi, ma ogni tanto ci piace incatenarci da soli. La paura del giudizio degli altri è una delle catene che ci può imprigionare per tutta la vita, impedendoci di dare il meglio di noi.
L’altro, il diverso da noi ci spaventa. Eppure la nostra vita è tessuta di relazioni: nessuno di noi è felice da solo. Perché il volto e lo sguardo dell’altro hanno il potere di umanizzarci pienamente, spezzando il giogo dell’isolamento e dell’anonimato.