«Aktion T4» e il dramma dello sterminio razziale
Ernst Lossa è un tredicenne jenish (un ceppo nomade di zingari), orfano di madre e con un padre venditore ambulante. Dopo aver vissuto in vari riformatori e subìto la pedagogia della frusta, Ernst viene strappato di nuovo alla sua famiglia e accolto nell’ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, istituzione imponente, ordinata e diretta con modi apparentemente gentili dal dottor Veithausen. Chi è Ernst? Un furfante ribelle (come recitano le sue cartelle cliniche), oppure un vivace, giocoso, generoso ragazzo di strada, curioso nell’apprendere i mestieri di contadino e artigiano, che il personale dell’istituto gli affida? Che strana clinica è quella in cui vivono gli «scemi» (nel gergo dei ragazzi): soggetti psicotici, neurolesi, deformi, chiusi dietro sbarre e trasferiti a turno in località imprecisate? Per respirare libertà, Ernst sale di notte sui tetti assieme a un amico e improvvisa giochi con poveri mezzi. Ma tiene gli occhi aperti, finché si accorge che una violenza mortale viene esercitata di nascosto, con la supervisione dell’elegante primario Veithausen.
Dietro quelle strane, rapide morti per polmonite, c’è in effetti una mano occulta, un’iniezione letale, un’intenzione di sterminio. Ernst, per quanto beneamato dagli infermieri, andava ormai fatto fuori, perché era diventato testimone scomodo di una strategia delittuosa, lo sterminio classificato come «Aktion T4», il programma di eutanasia nazista volto a eliminare soggetti afflitti da ritardi mentali, malattie inguaribili o turbe caratteriali, considerati un peso economico-assistenziale per la Germania degli anni ’40, che rincorreva il mito della razza pura, forte, sana e geneticamente superiore. Il film si ispira al romanzo omonimo di Robert Domes (Mondadori, 2017), basato a sua volta sulla storia vera di Lossa.
«Eugenetica» di per sé è un termine eticamente neutro: indicava originariamente lo studio dei metodi di miglioramento del patrimonio genetico, e non solo di quello umano. Purtroppo, la sterilizzazione coatta di disabili o minoranze etniche, così come la segregazione o l’eliminazione di malati, ritardati mentali o di soggetti considerati (a torto) irrecuperabili sul piano educativo, sono state aberrazioni storicamente documentate anche in paesi «civili», per quanto internazionalmente proibite da dichiarazioni etico-giuridiche. Il significato sinistro assunto dal termine eugenetica deriva anche dall’ipocrita strategia di giustificazione, che presentava l’igiene razziale come una pianificazione benevole e pietosa.
L’eutanasia selvaggia, che portò a morte decine di migliaia di persone, era considerata una compassionevole interruzione di vite (sostennero alcuni medici tedeschi davanti ai tribunali) segnate da sofferenze insopportabili, da handicap degradanti e da un’intrinseca, insanabile asocialità. Ed è proprio quello che teorizza il dottor Veihausen: «I genitori e gli stessi bambini sarebbero in realtà favorevoli ad abbreviare le sofferenze inutili». Non c’è alcun ghigno sadico sul volto del primario. Nessun indizio di psicopatia trapela nei suoi modi educati, comprensivi, rilassati, ammaliatori. Nessuno scrupolo morale gli toglie il sonno. Tranquilizza gli infermieri sospettosi. Rinsalda l’omertà. Elogia la complicità dei sanitari, che avvelenano i bambini con barbiturici al gusto di lampone. Inventa una dieta speciale priva d’alimenti, per indurre l’inedia.
La pellicola è saldamente didascalica. Una fotografia pulita, un ritmo lineare, una sceneggiatura melodrammatica, una ritrattistica minuziosa confezionano un racconto «a tesi», in cui la mostruosità del contenuto viene levigata e addomesticata dalle forme della rappresentazione, esponendo lo spettatore alla tentazione di autoassolversi in una contemplazione indignata ma passiva, come accadde alla pasciuta borghesia tedesca, collusa con la dittatura. Il film ripropone la sfida contro la compassione troppo facile, contro il clamore retorico, contro il disgusto di maniera.