Amore surrogato
È impossibile clonare una persona umana, perché una persona è più del suo patrimonio genetico, è più dei suoi tratti somatici. Potremo forse produrre il gemello di un individuo, che magari è scomparso, prelevando una cellula del suo corpo. Ma il nuovo essere non coinciderebbe con la persona che ci ha lasciato, e quindi non la rimpiazzerebbe. La storia dell’animale razionale, che chiamiamo uomo, è fatta di irripetibili incontri, mutazioni, interazioni con l’ambiente, ricordi, scelte di libertà. Se dunque viene meno chi ci è caro, non possiamo sostituirlo con un surrogato. Ci aspetta piuttosto il lungo, delicato, faticoso lavoro del lutto, con cui facciamo memoria dell’assente, dialoghiamo con la sua presenza interiore, piangiamo il dolore della solitudine, custodiamo antiche promesse, immaginiamo un futuro che meriti d’essere vissuto, anche in suo nome. Questo compito non è d’ordine psicologico, ma etico.
Tra Rebecca e Tommy, due splendidi bambini, cresce un’amicizia insolita, un sentimento di complicità, un gusto esclusivo di convivenza. La relazione è interrotta dalla partenza della ragazzina e poi dall’infausto incidente stradale di Tommy, dopo che i due si erano ritrovati, ormai grandi, scaldati nuovamente dalla stessa antica passione. Rebecca, per non impazzire di dolore e per liberarsi da acuti sensi di colpa, si fa trasferire in utero l’embrione prodotto dalla clonazione di Tommy e lo mette al mondo, lo assiste ed educa, ma non gli rivela la sua vera origine. Il nuovo Tommy intanto, giorno dopo giorno, assume le sembianze del «padre»…
Il film Womb (utero) non va letto realisticamente, come una trama di fantascienza che spezza l’antico tabù dell’incesto, ma come un mito, come l’illusione narcisistica di generare da soli, colmando il proprio vuoto. Questa presunzione nega la finitezza delle nostre storie, sminuisce la reciproca dipendenza affettiva tra i generi, svaluta l’avventura del fidanzamento, disimpegna dalla promessa sponsale.
La scienza, divenuta frettolosamente e grossolanamente la religione secolare della nostra epoca, non ha competenze per accorciare o sostituire la ricerca di un senso procreativo. La tecnica dice come fare un figlio in laboratorio, ma non perché desiderarlo o rifiutarlo, accoglierlo o programmarlo, promettersi per sempre a lui o accudirlo come rimedio al nostro bisogno d’affetto.
Rebecca guarda e liscia il suo pancione, sorridendo. Noi spettatori ascoltiamo i pensieri della mamma in attesa: «Forse avevo solo bisogno di questo dono, quello che mi hai dato alla fine». La frase suggella una parabola perversa, egoista. Ma allude anche alla vera alleanza genitoriale: in te, che ho generato e amato, adotto ogni altro figlio; ogni altro figlio mi parlerà di te, anche quando tu dovessi lasciarmi. Tu figlio sei nella carne il dono invocato e atteso lungo una storia di amore senza ritorno. Non sono all’altezza di te. Ad altri dovrò consegnarti come consegno me stesso, me stessa, come se noi genitori fossimo semplicemente i figli di colui che sta per venire.
Quasi ogni sequenza della pellicola ungherese reca tracce dell’acqua feconda e delle cavità nascoste, da cui emerge ogni nato di donna: coste piatte, piogge impreviste, conchiglie, mare, sabbia, case a palafitta battute dal vento, legni galleggianti, cieli nordici. E poi lacrime congelate, liquidi vaporosi, vasche che si riempiono, corpi che si toccano curiosi o vengono traditi da una voglia febbrile, folle, smisurata.
E il cinema? Chi insegue la narrazione tiene fede al patto, che ogni visione cinematografica celebra, come un sacramento, ma non esaurisce, perché la rivelazione offerta da un film è sempre incompleta, allusiva, embrionale. Ogni film rinvia alla generazione e fruizione di tutti gli altri. Un dvd può essere clonato e riprodotto, ma, nell’evento unico della proiezione, la mia storia di spettatore nasce una seconda volta, se si lascia coprire dall’ombra dello schermo.