Anderious Oraha. Perseguitato per la mia fede
Se non avessimo la fortuna di imbatterci in storie come quella di Anderious Oraha probabilmente ci dimenticheremmo che essere cristiani oggi non ovunque è semplice. Ma una volta conosciuta la sua vicenda sarà impossibile non domandarci: sarei capace di fare altrettanto? Sarei capace di difendere ogni giorno la mia fede a costo della vita? Un caso fortuito ha voluto che chi scrive questo articolo, e probabilmente chi lo sta leggendo, siano nati in un Paese dove la libertà di pensiero e di fede sono da decenni diritti inalienabili. Libertà, parola tessuta a trame così fitte nel nostro quotidiano da essere scontata, quasi invisibile.
Eppure, al contempo, parola così agognata dai cristiani iracheni da costringerli a lasciare la loro terra e ad attraversarne i confini ammesso che, su questa nostra terra, i confini esistano... Dice Khalil Gibran: «Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e un’altra (…). Peccato che tu non possa sedere su una nuvola». Ecco, allora, che questa storia può rappresentare la piccola nuvola sulla quale sederci per scoprire, con profonda gratitudine, che davvero i confini non ci sono. È la storia di Anderious, sessant’anni, quattordici dei quali, la sua giovinezza, passati come militare, combattendo anche nel conflitto tra Iran e Iraq. Dopo numerosi impieghi, tra cui la collaborazione con aziende italiane e francesi e con la Croce Rossa Internazionale, nel 2003, grazie alla conoscenza di cinque lingue diviene uno stringer (traduttore, autista e anche ghostwriter) collaborando con decine di giornalisti italiani inviati a Baghdad. Sulla sua straordinaria esperienza Anderious, insieme con il giornalista Martino Fausto Rizzotti, ha scritto un libro: Una storia Irachena. Vita di uno stringer cristiano in Medio Oriente edito da XY.IT, che racconta la sua vicenda personale a partire dalle radici famigliari, all’inizio del secolo scorso, fino alla drammatica fuga verso la libertà in Italia, dove ora è rifugiato politico. Nel 2003 i cristiani iracheni erano oltre 1 milione e mezzo; attualmente sono meno di 300 mila. È con la voce ferma e preoccupata di un uomo che ne ha viste tante che Anderious inizia il suo racconto: «I cristiani d’Iraq stanno pagando un prezzo molto alto per la loro fede. Rischiano la vita ogni giorno per Gesù. Perdono la casa, il lavoro, gli affetti e il diritto a vivere in pace nel loro Paese. Alcuni musulmani dicono loro: “Anche se siete i fiori del nostro giardino, andatevene. Per voi c’è tanto posto fuori dall’Iraq!”. Ma un giardino non può avere fiori di un solo colore. La bellezza dell’Iraq è sempre stata la diversità dei suoi “fiori”: musulmani (sciiti e sunniti), curdi, arabi, cristiani, mandei, turkmeni e yazidi per molto tempo hanno convissuto in pace, ma ce ne siamo dimenticati. I miei vicini di casa a Baghdad erano musulmani e, pur attraversando anni difficili durante il pesante regime di Saddam, abbiamo abitato fianco a fianco nel rispetto reciproco. Fu nel 2003, dopo l’arrivo degli americani, che iniziò il grande cambiamento. Da allora l’Iraq non fu più lo stesso, le persone non furono più le stesse e il mio Paese cadde nel caos. L’apparente e improvvisa libertà, e una errata interpretazione del concetto di democrazia, favorì l’espansione di alcune frange islamiche estreme che fino ad allora non erano riuscite a emergere». Msa. Quale fu l’avvenimento che vi fece capire che per i cristiani iracheni la vita non sarebbe stata più la stessa? Oraha. Avvenne, come dicevo, all’indomani dell’arrivo degli americani: dopo le loro promesse e un breve periodo in cui noi cristiani ci illudemmo che una pacifica convivenza fosse possibile, accadde ciò che tanto temevamo. In una domenica del 2004, sette chiese vennero distrutte durante la messa (quattro a Baghdad, due a Mossul, una a Kirkuk). Iniziarono i rapimenti e le uccisioni di fedeli e sacerdoti. Giorno dopo giorno cresceva l’odio. Capimmo che in Iraq non avremmo più avuto futuro. Lei conosce bene gli avvenimenti di quegli anni, come il caso del rapimento di Giuliana Sgrena. Più volte ha rischiato la vita. Avvisato dai servizi segreti di Saddam di non collaborare con gli occidentali, lei ha deciso invece di continuare a lavorare come stringer e di aiutare alcuni giornalisti italiani accusati dal regime di essere delle spie. Per lei è stata una questione d’onore aiutare gli amici, nonostante i rischi... In Iraq diciamo: «Ti metto nei miei occhi», cioè ti custodisco e rischio la vita con te. Il mio lavoro era molto pericoloso, sapevo di essere sotto controllo. Un collega interprete venne ucciso con tre colpi di pistola davanti a casa. Era solo questione di tempo e sarebbe toccato anche a me. La paura mi consumava, dovevo decidere. Per non finire come il mio amico avrei dovuto lasciare il lavoro, ma a Baghdad trovare un’altra occupazione era praticamente impossibile, come avrei mantenuto la famiglia? Io e i miei cari ci affidammo a Maria Ausiliatrice, chiedendole di proteggerci. Resistemmo fintanto che, il 29 maggio 2007, arrivò una lettera del Consiglio dei Mujahidin in Iraq: non avevo più diritto di vivere nel mio Paese. Dovevo lasciare la mia casa nel giro di 24 ore. Le mie colpe? Ero cristiano e, poiché stringer, considerato un collaboratore degli occidentali. Se io e la mia famiglia non ce ne fossimo andati e di corsa, sarebbe «calata la spada della giusta punizione» e ci avrebbero uccisi. Grazie al collega giornalista Giovanni Porzio, mi misi in contatto con l’ambasciata italiana che ci procurò i visti per uscire dal Paese. Iniziò lì la nostra più grande sofferenza. Quella che ancora oggi ci accompagna. Come organizzaste la fuga? Dovevamo lasciare i nostri cari e tutti i nostri beni in pochissimo tempo. Se avessi tentato di vendere l’auto, la casa o gli arredi avrei rischiato di essere ammazzato. All’epoca tutto era controllato da una rete sommersa di informatori; solo vendere un oggetto di casa metteva a rischio la vita. Se trovavi un acquirente, rischiavi che il giorno dopo quello tornasse, ti assassinasse e si riprendesse la somma che aveva pagato. Per vendere la macchina mi accordai con un parente che me la pagò molto meno del suo valore; in cambio la lasciò da me, per non destare sospetti, fino al giorno della nostra partenza. Partimmo io, mia moglie Jamila e i miei quattro figli (che all’epoca avevano ventuno, diciannove, diciassette e dodici anni) con il minimo indispensabile, lasciandoci alle spalle cinquant’anni di vita e di affetti. Rimanere significava morire, partire, forse, ci avrebbe salvato. Cominciò così un viaggio verso un mondo sconosciuto. Piangevamo di paura e dolore. Mi accordai con un autista che ci doveva portare da Baghdad a Damasco. Prendemmo l’unica strada possibile per raggiungere la Siria. Si chiama «strada della morte» perché ogni giorno, su quel percorso, qualcuno perde la vita a causa delle incursioni delle bande armate. Ci affidammo di nuovo a Maria. Avevamo il 50 per cento di possibilità di sopravvivere al viaggio. L’autista ce lo confidò solo quando fummo in salvo, alla fine di una corsa durata dodici interminabili ore. Passammo il confine iracheno, ultimo temuto ostacolo, dopo tante lacrime e dopo aver pagato una sostanziosa tangente alle guardie. Giungemmo infine in Siria e, sempre grazie a Giovanni Porzio, prendemmo un aereo che ci condusse in Italia. Arrivati qui, andammo a vivere in una casa di accoglienza in provincia di Milano. Quali sono state le prime difficoltà che avete dovuto affrontare nel nostro Paese? La nostra nuova vita cominciò pervasa da una grande nostalgia. Dopo poche settimane ci giunse la notizia della morte della mamma di Jamila: fu un grande dolore. Eravamo lontani dalle nostre radici e sospesi, in attesa di un domani incerto. Dopo qualche mese ottenemmo lo stato di rifugiati politici e scoprimmo che, al contrario di altre nazioni europee, in Italia non è previsto nessun aiuto per chi, come noi, fugge dalla guerra. Ci ritrovammo da un giorno all’altro nella necessità di cercare una casa e un lavoro. Non temevamo più la morte, ma ci spaventava, in quel momento, non sapere come saremmo riusciti a sopravvivere. Nonostante le difficoltà pensate di rimanere? Ringraziamo l’Italia che ci ha accolto, siamo stati fortunati. Continuiamo a pregare per i nostri parenti in pericolo, ma anche per noi qui la vita è precaria. Come accade a chi è costretto a lasciare le sue radici, anche noi sperimentiamo la fatica di condividere il nostro dramma con i fratelli in Cristo. Sentiamo una grande nostalgia e speriamo un giorno di rivedere la nostra casa. Lei ha rischiato la vita per i nostri connazionali in Iraq. Abbiamo un debito di riconoscenza nei suoi confronti. L’unico desiderio è quello di ottenere al più presto la cittadinanza italiana per tutta la famiglia. Abbiamo iniziato le pratiche lo scorso marzo all’Ufficio cittadinanza della prefettura di Milano. Ora attendiamo che arrivino al Ministero. Solo quando avremo un passaporto potremo ottenere un lavoro e visitare i nostri parenti anche oltre i confini europei. La schedaChi è
Anderious Oraha è nato a Bibosi nel 1955. Ha vissuto tra Bibosi, Al Qosh e Baghdad, passando quattordici anni della sua vita come militare. Ha svolto vari lavori: interprete, tassista, negoziante di alcolici e di telefonini. Ma il suo lavoro più importante è stato lo stringer, che lo ha portato a collaborare con moltissimi giornalisti italiani, rischiando la vita insieme con loro più di una volta accompagnandoli nelle zone calde dei conflitti che hanno incendiato l’Iraq.
Uno di loro scrive: «La verità è che Anderious e gente come lui sono i nostri occhi della guerra. Alla fine è grazie a loro se a nostra volta siamo gli occhi dei lettori sulle piaghe dell’umanità». Dal 2007, anno della sua fuga dall’Iraq, Anderious Oraha vive in Italia con la moglie e i quattro figli e spera di ottenere presto la cittadinanza italiana. È autore del libro Una storia irachena. Vita di uno stringer cristiano in Medio Oriente, edizioni XY.IT