Antonio nella città deserta
Festa del Santo a Padova. La città del Santo senza nome, si diceva una volta quando si citavano le sue proverbiali caratteristiche (insieme naturalmente al caffè senza porte, anche se il Pedrocchi ormai le ha, e ben robuste, e al grandioso prato senza erba, il Prato della Valle). Ed è proprio vero.
La semplice parola «Santo» per noi padovani significa non solo la Basilica di sant’Antonio, ma anche la via per cui ci si arriva, oltre alle molte cose e realtà che ci gravitano intorno. Se parliamo con un turista, o uno straniero che chiede la strada, noi «paesani» dobbiamo rifletterci su un attimo, prima che ci venga in mente che è necessario completare la frase per farci capire e non creare qualche inutile confusione.
Nel tredicesimo giorno del mese di giugno – anno dopo anno – la città è invasa da una folla immensa di gente che sa benissimo dove vuole andare, e ha con Antonio e la sua santità una consuetudine affettuosa che spesso diventa amichevole famigliarità.
L’uso di appoggiare la mano sulla mitica lastra scura che ricopre il suo sepolcro è sempre stato per me un segno simbolico ma fortissimo di questa devozione che diventa intima amicizia, espressione esteriore di una fiducia come tra parenti stretti: «A lui si può dire tutto, e io ho tanto da raccontargli», mi sussurrò in tono di scusa un paio di anni fa un omone baffuto e ben piantato che stava proprio davanti a me, con la sua manona distesa sul marmo, senza accennare a spostarsi e rallentando tutta la fila.
Ma quest’anno nell’immensa Basilica per lunghi mesi non c’è stato nessuno. Si percepiva dappertutto il silenzio operoso della preghiera di lontano, che è forse, sì certo, molto utile. Serve e aiuta: eppure credo che, a tutti noi, sia mancato quell’essere in tanti in quel grandissimo spazio, ciascuno pregando per sé ma anche ciascuno consapevole della presenza fisica degli altri.
Una presenza composta di piedi che hanno tanto camminato, di corpi che sudano, di visi stanchi, pallidi o arrossati, ma che dà a ciascuno dei fedeli non la sensazione di stare tutto solo, nudo davanti a Dio, ma quella ben più confortante di essere la piccola tessera di un grande mosaico, con la sua propria personale sfumatura di colore, parte di un compatto tessuto sonoro e visivo che diventa una possente preghiera comune, una relazione di fiducia e di amore.
Tuttavia quest’anno è andata così. Molto, moltissimo, è diventato televisivo o virtuale, paura e angoscia si sono diffuse tra la gente, diventando spesso ossessivi rituali di purificazione, a volte rivelando il sogno malato di un annullamento della nostra realtà concreta di esseri umani: si parla (e straparla...) di scuola puramente virtuale, come se la presenza fisica degli scolari e dei loro insegnanti, e tutti i rapporti che si intessono durante un anno scolastico, non fossero parte integrante del processo di apprendimento e di maturazione
Allora io ho cominciato a pensare intensamente ad Antonio e al suo esempio. Lui mi è comparso davanti, affaccendato e laborioso, come doveva essere in vita: un piccolo frate, in cui l’umiltà risplendeva come una corazza fino a renderlo invincibile, che si aggirava per le strade e sotto i portici della nostra città trascinando i piedi stanchi, e si arrampicava sugli alberi per spezzare la parola di Dio come il pane che nutre, il pane consacrato.
L’ho sentito camminare per noi e con noi, implorare per noi, farsi vicino a ognuno di noi, parlando a tutti e tutte. Ascoltando e guidando verso quella luce lontana di cui i nostri deboli occhi non riescono a innamorarsi.
E mi pareva che i suoi passi disegnassero per la città un concreto sentiero di luce, come la lunga scia dei frammenti di quel pane luminoso che «solo è nostro, e noi siamo fatti per lui».
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