Aperti all'incontro
Qualche tempo fa, durante un’occasione informale di confronto tra pedagogisti, educatori e operatori del terzo settore, sono stato particolarmente colpito da una frase di uno dei partecipanti, a cui è seguita una discussione piuttosto interessante e che ora, cari lettori, mi fa molto piacere condividere con voi.
La frase è la seguente: «Nel legame le persone hanno un debito reciproco. Quando il disabile si mette in comunicazione e in un legame con la comunità, la comunità è già in debito con il disabile. Nello scambio equivalente, le relazioni non si mantengono. Bisogna mantenere aperto il debito come significato. Debito di relazione che tiene aperto il desiderio di mantenere la relazione stessa».
Una frase sibillina che, nella parola «debito», mette in campo molti nodi aperti e alcune contraddizioni. La stessa cultura cattolica può cadere in questo tranello, cercando, per esempio, di mettere in pratica concetti importanti e fondanti come la carità, l’accoglienza e il rispetto per il prossimo.
Tutto ciò, però, può nascondere al suo interno una piccola sfumatura che, se ci sfugge di mano, può essere fuorviante, rovinando così le nostre buone intenzioni. Sto parlando del «senso di colpa», quella sensazione di inadeguatezza profonda che ci colpisce quando a noi stessi sembra di non esserci comportati secondo criteri di bene o quando pensiamo di non aver del tutto risposto a una richiesta da parte dell’altro.
Essere capaci di guardarsi dall’esterno e di autoregolamentarsi è sano, ma quando questo giudizio è fuorviato dalla paura, dal perbenismo o addirittura dal pregiudizio, ecco che il senso di colpa può falsare un dato di realtà. Torniamo a noi. Debito e disabilità. Due parole che in apparenza hanno poco a che fare l’una con l’altra, ma che, come in questo caso, vengono spesso associate.
La frase al centro della discussione, tuttavia, mette in campo anche un altro concetto fondamentale: il binomio azione-relazione. In esso si sottolinea come nello scambio tra necessità e risposta – un disabile che, per esempio, chiede un bicchiere d’acqua e una persona che glielo dà – si finisca per esaurire il desiderio di mantenere aperta la relazione.
Inutile dire che, su questo aspetto, si sono scatenate le opinioni più disparate: da chi rivendicava tale diritto come indiscutibile a chi poneva, invece, il bisogno di dilatare il più possibile lo scambio personale tra gli interlocutori. Un trucco potrebbe essere sostituire il termine «debito» con «disponibilità», ma cosa succederebbe?
Il concetto di disponibilità presume una relazione alla pari; l’espressione «debito», invece, porta con sé l’idea che una delle due parti si senta più «fortunata» dell’altra e questo crea uno squilibrio nella relazione. Da qui nasce il senso di colpa a cui accennavo prima. Tutto questo crea una cultura che annulla l’autonomia personale e foraggia il «dovere», «l’essere responsabili» nei confronti dell’altro.
Ma c’è anche un’altra possibilità: concepire la disponibilità come un atteggiamento, un modo aperto di intendere la vita, aperto all’imprevisto, all’incontro. Un doppio punto di vista per una domanda fondamentale: dove finiscono il diritto di scelta e la spontaneità in questo crocevia? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.