Attenti alle false verità
Novembre 2016: a poche settimane dal referendum che avrebbe decretato se modificare o meno la Costituzione, nel paese di Rignano sul Membro vengono rinvenute 500 mila schede elettorali già segnate sul «sì». Peccato che il paese in questione nemmeno esista e che la notizia in realtà sia l’invenzione di un sito satirico. Nessuno però la verifica. Alcuni media la rilanciano sui loro canali web e – tra commenti, like e condivisioni – sui social network la bufala supera le 233 mila reazioni, piazzandosi al primo posto nella classifica delle notizie sul referendum più diffuse in Rete. Fosse questo un caso isolato, potremmo dormire sonni tranquilli, ma le fake news (si chiamano così le notizie false che distorcono la realtà di proposito, per veicolare l’opinione pubblica in vista di un obiettivo) oggi dilagano incontrollate. Dal caso Trump, il presidente degli Usa incoronato vincitore ancor prima della fine delle elezioni, fino al pomodoro giallo geneticamente modificato (si tratta invece di una delle prime varietà importate dalle Americhe nel XVI secolo), l’informazione autentica è quasi un miraggio.
Complice la Rete, l’overloading (sovraccarico) di notizie e gli infiniti canali di diffusione, ormai non distinguiamo più la realtà dalla finzione. E, tut-to sommato, ci va anche bene così. Perché la verità è spesso scomoda e faticosa, perché non fa notizia e non acchiappa clic. Tanto più facile è accettare versioni preconfezionate ad hoc, seguire il flusso e lasciare che internet – tracciando i nostri movimenti e rinforzandoci nelle convinzioni – ci impedisca di uscire dal seminato che ci siamo preparati con le nostre mani. «È più difficile disintegrare i pregiudizi che disintegrare gli atomi» diceva Albert Einstein. Considerato poi che – come riporta una ricerca Demos & Pi del 2015 – il 49 per cento degli italiani usa internet tutti i giorni per tenersi informato, c’è davvero poco da stare allegri. Perché, blog e siti satirici a parte, a diffondere le fake news online sono in primo luogo i social network.
Secondo un recente studio dell’Osservatorio Internet Media in collaborazione con Doxa, il 68 per cento dei fruitori di Facebook legge tutti i giorni o quasi articoli in esso citati e il 32 per cento li condivide con gli amici. Ma si tratta di notizie non sempre verificate e presentate tutte allo stesso modo. Incapace di filtrare i contenuti, il social diventa così – suo malgrado – un amplificatore facilmente strumentalizzabile. Ora, però, le cose iniziano a cambiare. Non è un caso che Facebook e Google, a distanza di pochi mesi dalle elezioni americane e dalla relativa impennata di fake news, abbiano dichiarato guerra alle bufale. «Le notizie false sono una questione seria per noi – è rimasto scritto nella colonna delle News Feed di Facebook per tre giorni, assieme a un decalogo anti bufale –. Ci stiamo impegnando per limitarne la diffusione». Ma non finisce qui: quest’anno Facebook è stato pure sponsor del Festival del giornalismo di Perugia. E intanto Google ha avviato una campagna per bloccare la propria pubblicità sui domini delle testate produttrici di fake news.
Se i colossi del web si danno da fare, anche la politica non sta a guardare. Mentre in Germania si è ipotizzato di sanzionare i siti che non rimuovono notizie calunniose o diffamatorie con multe fino a 50 milioni di euro, in Italia lo scorso aprile Laura Boldrini ha preannunciato l’avvio di un’indagine conoscitiva sulle false verità. «Le fake news – ha spiegato il presidente della Camera – stanno diventando un fenomeno dilagante che determina un danno. Se essere correttamente informati è un diritto, essere disinformati è un rischio». La qualità, insomma, comincia a fare notizia. E, una volta tanto, questa non è una fake news.
Strategie di difesa
Per far fronte a un’emergenza bisogna prima capirne le origini. Non fa eccezione il problema delle false verità e della post-verità (contesto in cui le bufale, facendo leva su emotività e convinzioni, vengono percepite come reali e orientano l’opinione pubblica). «Le fake news c’erano anche prima – spiega Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano –, ma solo ora, in una società mediatizzata in cui tutto è manipolabile, una realtà di fantasmi dove i canali di comunicazione sono infiniti e fuori controllo, ce ne siamo accorti. Non sappiamo più che cosa è vero e cosa è falso. E la colpa di ciò deriva dalla metamorfosi dei sistemi di comunicazione. Se negli anni Settanta esisteva la tv di Stato come unico canale di comunicazione, in quarant’anni siamo passati da un modello centralizzato a un ambiente totalmente digitalizzato. Abbiamo liberalizzato qualsiasi cosa e ora ci accorgiamo che lo spazio della comunicazione è pieno di immondizia».
Dal monopolio dell’informazione all’inquinamento mediatico il passo però non è breve, tanto meno agevole. C’è bisogno dell’impegno di tutti per limitare i danni e aprire nuovi orizzonti di autenticità. «Anche i giovani iniziano a capire che non si può dare per scontato tutto ciò che si legge o si vede online. E già questo è un primo passo avanti – continua Magatti –. Un po’ alla volta, faticosamente, non senza fallimenti, ci abitueremo a costruire anticorpi e a trovare soluzioni». La ricetta contro le falsità è costituita da tanti accorgimenti. C’è bisogno di norme giuridiche che intervengano sui casi di evidente trasgressione, ma c’è bisogno anche di un controllo sociale dentro la Rete. «È fondamentale che la scuola alleni i ragazzi a rapportarsi nel modo corretto col sistema multimediale». Educazione e legami sociali sono dunque – per Magatti – due fattori chiave di protezione dalle fake news. «Quanto più noi viviamo in una società mediatizzata, tanto più dobbiamo investire nella comunicazione, nell’educazione e nella scolarizzazione, attivando reti di confronto e discussione, ma anche strumenti culturali e istituzionali che ci aiutino a trattare questo nuovo mondo che abbiamo creato».
Sul «fare rete» hanno già scommesso molte realtà, come la First Draft Coalition, che, attraverso il sito First Draft News, raccoglie dati, storie e dispensa consigli per navigare sicuri. O come l’associazione Factcheckers, nata nel 2016 da un gruppo di giornalisti e tecnici esperti del web con l’obiettivo di promuovere la cultura della verifica delle fonti tra studenti, docenti e organizzazioni educative. Si è dedicato al debuking (smontare le bufale) pure lo European Journalism Centre che nel 2014 ha prodotto – col contributo di molti professionisti della comunicazione tra cui il giornalista Craig Silverman – un Verification handbook (guida alla verifica dei contenuti digitali).
C’è chi combatte le falsità in Rete con le parole e chi lo fa con gli algoritmi. Pensiamo ad Andreas Vlachos, greco 36enne che da dieci anni studia le dinamiche di apprendimento automatico delle macchine. A lui e alla sua startup inglese Factmata va il merito di aver inventato un sistema in grado di scovare da sé le fake news. Non resta che confidare dunque negli algoritmi e, nel frattempo, festeggiare. Come del resto è già stato fatto il 2 aprile scorso, durante l’International fact-checking day (Giornata internazionale della verifica dei fatti), una ulteriore occasione per sensibilizzare la gente al valore della verità.
L’articolo riporta anche gli interventi di Luciano Manicardi, priore della Comunità monastica di Bose e di Paolo Attivissimo, giornalista esperto cacciatore di bufale. Per leggere il servizio completo, vedere il numero di giugno del «Messaggero di sant’Antonio» o la versione digitale della rivista.