Africa, la forza delle radio di comunità
È stato scritto molto, negli ultimi mesi, sull’incapacità dei media di sentire il polso della gente, di coglierne le paure, i bisogni, le speranze, avvitandosi piuttosto in un’autoreferenzialità che contribuisce ad aggravare i problemi anziché aiutare ad affrontarli. Non si deve, però, fare di tutta l’erba un fascio, e si può cercare di rintracciare, in un panorama che non è mai stato così variegato, qualche esempio virtuoso che possa ispirare un cambiamento.
In Africa ho conosciuto le «radio di comunità»: piccole emittenti che trasmettono in un raggio molto ridotto (5 Km), eppure hanno una funzione fondamentale non solo per la coesione sociale, ma anche per mettere a fuoco, discutere e affrontare le questioni più urgenti della comunità. I giornalisti, per lo più volontari, colgono il periodo di lavoro in radio come un’opportunità di formazione, un investimento per il proprio futuro professionale. Molte radio importanti, tra cui la BBC, attingono da qui per selezionare personale. L’aspetto più interessante di queste radio è il radicamento profondo nella vita vissuta, e lo scambio continuo col pubblico che le dimensioni ridotte consentono.
Una radio di comunità è, prima di tutto, una «radio che ascolta». I giornalisti, essi stessi provenienti dal territorio, promuovono un fitto lavoro di inchiesta, che prevede anche incontri regolari con i rappresentanti della comunità per stabilire le priorità, i bisogni, le questioni sentite come più urgenti e cercare di orientare la programmazione in modo che sia utile: invitando esperti, organizzando forum di discussione, promuovendo (con successo) forme di negoziazione con le istituzioni.
Da «tamburo tribale», come la definiva McLuhan per la sua capacità di coinvolgimento, la radio di comunità è diventata oggi un «corpo intermedio» che aiuta a contrastare gli effetti di vulnerabilità che l’individualismo estremo ha prodotto.