Ballare per Dio
«La danza è poesia perché il suo fine ultimo è esprimere sentimenti. Il nostro compito è quello di far passare la parola attraverso il gesto». La definizione è di Carla Fracci, una delle più grandi ballerine classiche del nostro tempo recentemente scomparsa. Alla danza dedicò una vita intera insieme alla caparbia convinzione che, proprio per la sua intrinseca potenza espressiva, quest’arte avesse la necessità di uscire dai teatri e dai palcoscenici per arrivare a tutti. Perché la danza è linguaggio, in una delle sue forme più complete e armoniche. È espressione vitale, passione universale e ancestrale. Da sempre e a qualsiasi latitudine l’umanità ha sentito il bisogno di ballare. Ogni singolo gesto, ogni movimento, ogni passo è emozione. Anzi, è un’emozione collettiva come suggerisce l’etimologia greca della parola «coreutica», l’arte di danzare in coro. È uno strumento che permette di comunicare con gli altri e, allo stesso tempo, con le forze superiori e soprannaturali. Nella parola «danza» è racchiusa la radice sanscrita tan che richiama il concetto di gioia. Perché la danza è, prima di tutto, bellezza, armonia e gioia. Per questa ragione, scrive la filosofa Selena Pastorino nel suo Filosofia della danza (Il Nuovo Melangolo, 2020): «Dall’impegno del corpo nella danza c’è un qualcosa da apprendere e conservare anche qualora non si sia mai mosso un passo danzato».
La domanda di fondo, allora, è: ma davvero tutti possono danzare? Una delle risposte più importanti che descrivono meglio la potenza espressiva della danza come arte per tutti la diede il ballerino russo Rudolf Nureyev: «Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna. Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria. La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Ogni uomo dovrebbe danzare, tutta la vita. Non essere un danzatore, ma danzare».
Anche perché danzare oltre a far bene al nostro corpo, fa star bene il nostro cervello, suggerisce la neurobiologa Lucy Vincent. «Ho iniziato a ballare solo da qualche anno: una rivelazione, un’inaspettata dimostrazione dell’intelligenza del corpo – scrive nel suo Fate danzare il cervello. Ballare per allenare la mente e la felicità, Ponte alle Grazie 2019 –. Pensavo che avrei danzato alla perfezione in sei mesi, o anche meno. Ovviamente non è successo. Ma da quando mi sono messa a studiare seriamente ho iniziato a constatare cambiamenti fondamentali nel mio corpo. E ho iniziato ad aprire gli occhi. Come neurobiologa avevo sempre creduto nell’unità corpo-cervello, ma la pratica della danza mi ha dimostrato che nel fondo di me stessa ero in realtà come tutti: fortemente ancorata alla visione dualista, credevo nella superiorità del cervello sul corpo». La danza può rivelarsi, allora, un magnifico strumento di esplorazione, indagine, comprensione, intelligenza ed espressione alla portata di tutti. Ogni passo di danza offre scoperte e nuovi collegamenti al nostro inconscio, grazie a molteplici meccanismi. Perché, afferma Roberto Bolle, primo ballerino della Scala: «La danza è un’arte meravigliosa. È una disciplina che parla a culture diverse. Non ci sono limiti, non ci sono barriere: ognuno può fare danza. La danza ha tanti valori: la disciplina, il rigore, la tenacia, tutto quello che noi impariamo fin da piccoli. È una vera scuola di vita, che forgia il corpo, ma prima ancora il carattere, la personalità.
Danzare il sacro
La danza è l’espressione più piena della preghiera e della gestualità – ha scritto Manuela Sadun Paggi, presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze sul periodico “Toscana oggi” –. […] È nello stesso tempo conoscenza, arte e religiosità. Essa ci rivela che il sacro non è scindibile dal profano, che lo spirito non può essere disincarnato, e attraverso di essa l’umano si scopre non diviso, ma interamente presente a quello che fa mentre i gesti scaturiscono in bellezza e armonia». La danza nell’ebraismo è pratica diffusa (non a caso nella lingua ebraica ci sono ben sette verbi che indicano il gesto del danzare) ed è espressione di vitalità di un popolo «che vive i rapporti in modo naturale, in cui tutte le dimensioni umane sono perfettamente integrate: istinti, mente, cuore, spirito».
Ma se l’ebraismo è stato il primo a capire l’implicazione religiosa della danza, anche tra i cristiani essa ha preso piede, non senza qualche perplessità a dire il vero. Nessun problema quando si tratta di un’espressione prevalentemente culturale come avviene in alcune zone dell’Africa, per esempio, dove la corporeità rappresenta il luogo attraverso cui entrare in comunione col mondo circostante e col soprannaturale e la danza, pertanto, assume il significato di una manifestazione di appartenenza alla comunità e di senso religioso. Il discorso però si complica quando ci si focalizza sul mondo occidentale. In tale contesto, infatti, secondo molti la danza non può essere ricompresa in un ambito religioso, perché essa avrebbe prevalentemente un carattere di performance di spettacolo. In realtà non è sempre stato così. Sandro Cappelletto, su «La Stampa», ci ricorda che «per difendere la tradizione di danzare durante le cerimonie religiose, nel 1439 l’arcivescovo di Siviglia inviò una supplica a papa Eugenio IV perché autorizzasse il mantenimento di quell’antico e amatissimo rituale: permesso eccezionalmente accordato, in un’epoca in cui fioriscono opuscoli e trattati contro i danzatori, e in particolare contro le danzatrici.
Sarà poi la Controriforma a regolamentare in maniera molto severa la presenza della danza durante le funzioni sacre. Ritmi di danza rimarranno riconoscibili in tanti momenti musicali, anche nelle Cantate sacre di Bach, ma nelle Chiese europee, cattoliche o protestanti, il ballo non avrà più diritto di asilo».In anni recenti, un grande lavoro di ricerca sulla danza sacra nella Chiesa occidentale è stato compiuto da Clara Sinibaldi, ballerina e maestra di danza nonché docente di religione nelle scuole, recentemente scomparsa. «Per descrivere la danza sacra liturgica – aveva detto in una lunga intervista rilasciata al settimanale «Verona Fedele» – uso citare le “quattro P”: preghiera, progetto, persona, passione. Preghiera, perché la danza è movimento del corpo e dell’anima che si lasciano avvolgere da Dio, per mettere in pratica l’invito del Deuteronomio ad amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.
Progetto, perché presuppone una ricerca nella tradizione cristiana che affonda le sue radici nella pratica religiosa dell’ebraismo – il re Davide che danza davanti all’arca dell’Alleanza – e paleo-cristiana. Persona, perché la danza sacra valorizza la corporeità nella sua interezza, secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo che ai cristiani di Corinto dice “Il corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio”. Passione, perché è ricerca incessante del dialogo con Dio».Secondo Sinibaldi alle origini del cristianesimo la danza aveva un suo posto ben preciso: «Nella tradizione post-pasquale la danza sacra fu praticata soprattutto dai Terapeuti, una comunità ascetica dedita alla vita contemplativa. Tra il III sec. d.C. e il XVI sec. d.C. questa danza entrò a far parte della liturgia cristiana, ma la stessa danza nei secoli assunse tinte sempre profane fino alla messa al bando nel XVII d.C. Una presa di posizione che fu supportata anche dalla filosofia platonica, tesa a separare lo spirito dal corpo, in quanto quest’ultimo era visto come il carcere dell’anima. Una impostazione in contrasto con la teologia biblica dove si legge che “il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”».
Bisognerà attendere i primi anni del 1900 per una prima rivalutazione che avvenne a opera di Isadora Duncan, la celebre danzatrice americana che riscoprì il significato sacrale della danza, tanto da dichiarare in uno dei suoi trattati che «la danza è religione». Sia chiaro, però: danza sacra e danza come spettacolo sono due linguaggi completamente diversi. «Nella danza sacra non si interpretano ruoli perché il danzatore presenta se stesso davanti a Dio. Non si tratta di una recita davanti ai fedeli, ma di un modo totale di pregare» sottolineava ancora Sinibaldi. Per questo una coreografia di danza sacra nasce sempre da un desiderio di contatto col divino e può scaturire «dalla meditazione sulla parola di Dio, dal desiderio di pregare per una particolare situazione, da un lavoro di ricerca e sperimentazione di gruppo o da una riflessione sull’iconografia cristiana».
Ancora diversa rispetto alla danza come spettacolo e alla danza sacra è la cosiddetta danza liturgica, che, come dice il nome, viene pensata e danzata appositamente per la liturgia. Dai primi anni del 2000 essa è una realtà, per lo meno nella diocesi di Milano. Importante in tale ambito l’opera di divulgazione che la danzatrice e coreografa Roberta Arinci ha portato avanti insieme con padre Eugenio Costa, gesuita, liturgista e musicista, recentemente scomparso. «Con l’aggettivo “liturgica” – scrive Arinci – si intende designare, restringendo il campo, assai vasto e composito, della danza cosiddetta “sacra” o “meditativa” o anche “danza-preghiera”, alla sola esperienza di composizione ed esecuzione delle danze adatte al rito cristiano della Chiesa cattolica, si tratti di celebrazione eucaristica o della Liturgia delle Ore».
Va compreso, sosteneva padre Costa, che «non si tratta di fare spettacolini durante la liturgia, quasi un modesto e gradevole intervallo. Si tratta invece di far nascere, per così dire, l’atto danzato dall’interno stesso dell’azione rituale, in maniera chiaramente individuata e ben studiata, quindi consono a quello che il singolo rito sta compiendo. Solo così la danza ha un suo legittimo spazio nella celebrazione, ed è in grado di offrire quel “di più” che le è proprio, e che non viene dato dai consueti gesti e movimenti, Ma si può anche affermare che l’atto danzato è quasi un prolungamento dei gesti e movimenti già presenti nel celebrare». Se dunque finora un vero approfondimento sul tema della danza nelle funzioni religiose della Chiesa non è mai stato fatto a livello istituzionale, non è detto che il futuro non ci riservi qualche sorpresa. Magari proprio su stimolo di papa Francesco, che anche di recente ha ammesso, da bravo argentino, di apprezzare e di aver ballato più volte il tango in gioventù, e può quindi capire le potenzialità della danza non solo come forma di intrattenimento ma anche come forma di preghiera corporea in ambito sacro e liturgico.
L’espressione perfetta
«La danza è un modo unico, sublime per esprimersi. Ho iniziato a danzare a 4 anni e, anche per questo, è la modalità di espressione che conosco meglio e che ho affinato di più come ballerino e coreografo. Per quanto mi riguarda, è il modo perfetto, il più efficace». Valentino Zucchetti, anche se appena trentaduenne, è già uno dei più affermati ballerini di danza classica sulla scena internazionale. Originario di Calcinate (BG), è il primo coreografo italiano sul palco della Royal Opera House: non era mai accaduto in cento anni di storia della Royal Ballet. Il 26 giugno la prima di Anemoi, con la sua coreografia, il 9 luglio la replica live in mondovisione. «La danza è una continua interazione tra anima e corpo, un instancabile processo di conoscenza e di ricerca. Ci fa misurare con noi stessi, in relazione costante col nostro corpo e con una dimensione estetica. La danza allena alla disciplina e alla perseveranza, utili poi nella vita di tutti i giorni, mette in contatto con il nostro io più profondo, quello che spesso è proprio il nostro corpo a rivelarci prima ancora che la testa. Essendo abituato fin da piccolo, è un rapporto stretto che non mi ha mai spaventato, è un metodo quotidiano, una lezione in divenire, utile dentro e fuori la danza».
Con DistDancing, l’estate scorsa Zucchetti – insieme a vari colleghi tra cui Annalisa Midolo, artista circense, e la prima ballerina Chisato Katsura – ha improvvisato, lungo il Regent’s Canal, un piccolo palcoscenico, dando modo, a chi si trovava sull’altra sponda, di ammirare in maniera del tutto gratuita brevi performance di danza e arti tra le più varie. Nelle settimane successive è diventato un appuntamento fisso che ha permesso a tanti artisti di esibirsi e farsi conoscere.«La danza è relazione con se stessi e con gli altri, dagli altri artisti al pubblico. Il mondo della danza internazionale, in fondo, è più piccolo di quanto si pensi. Il bello è che ci conosciamo tutti, parliamo tutti dalle due alle quattro lingue, è normale avere in classe amici brasiliani, australiani, cinesi. Questo spaziare oltre i propri confini ti pone subito a confronto con una visione globale della danza, dell’arte, ma anche del mondo, aperta ad altre culture. Non riuscire a conoscere, ad ampliare gli orizzonti, rende le persone miopi. Noi siamo un gruppo molto aperto, multiculturale. Personalmente, quando vedo divisioni non solo tra le nazioni, a volte anche tra un paese e un altro con competizioni da campanile, le ritengo infantili. È giusto dare ritmo e ali alle aspirazioni di tutte le persone del mondo. La danza, l’arte, hanno questo compito prioritario. È molto più quello che ci accomuna di quello che ci divide. Alla fine, se ci pensiamo bene, magari vogliamo arrivarci in modo differente, ma vogliamo tutti le stesse cose come poterci esprimere in libertà».
N.M.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!