Betlemme e Riace: pane per tutti
Ieri come oggi. C’è sempre una Betlemme da scegliere. C’è sempre una Betlemme che accoglie. Nella sua piccolezza che si riveste di miracolo. Betlemme e non Gerusalemme. Poiché il cuore del Vangelo nasce sempre nella piccolezza, per diventare poi grandezza. È il mese di dicembre. Perciò, ancor più, mi piace scorrere lungo le strade di questa piccola cittadina, ora in terra palestinese. Perché da essa imparo un criterio decisivo nella mia vita di vescovo in terra molisana. Come ieri in terra calabrese. È il piccolo che sale in cattedra e si fa maestro. Il paesello si trasforma in borgo, con la sua storia e i suoi colori. E insegna alla città.
Così il mio cuore corre a Riace, cittadina diventata famosa per la vicenda complessa ma umanamente singolare del suo sindaco, Mimmo Lucano. Se ne è parlato molto. Perché si è fatta icona di un modello di accoglienza dei migranti, il «modello Riace» appunto. È una storia dal sapore di Betlemme. Mi parla. Proprio come avvenne quel giorno in cui pastori, umili ma vigilanti, accolsero la voce degli angeli. Sono parole che in questo mese ascolteremo molte volte. Ma sempre con stupore e gioia grande. Perché in esse c’è lo stile di Dio.
La vicenda di Riace nasce così. Nell’umiltà di un borgo calabrese dalla storia antica, dal fascino di un mare blu. Capace di nascondere per millenni un tesoro. I due bronzi scoperti per caso da un subacqueo ricercatore di fondali, che giacevano in quel grembo di mare da tempi antichi.
Ho conosciuto il coraggioso sindaco di Riace nei miei primi anni di attività di vescovo a Locri. Ho condiviso con lui la forza della speranza che ha posto tra la sua gente, nel momento in cui ha intuito la preziosità delle aree interne. Nel centro storico la vita languiva. Pochi i bambini, la scuola rischiava di chiudere. Poco il lavoro anche per la difficoltà delle strade interne, molto difficili da percorrere.
Da lì, una tenace inversione di tendenza: «Invece che piangere – disse – affittiamo i vecchi stabili dei nostri amici che sono emigrati in terre lontane, negli anni Sessanta e Cinquanta. Case che rischiano di crollare, dal valore minimo. Le ricuperiamo, le riaggiustiamo e ne facciamo un albergo diffuso».
Ed ecco la genialità dell’intuizione. La proposta piace. Le idee maturano. I turisti arrivano. Per pochi soldi affittano o comprano una casetta, per poi godersi il mare. La spazzatura viene raccolta con gli asinelli. Ed è coniato uno slogan che premia il lavoro fatto per rendere belle le aree interne: «Se il bosco è verde, il mare è blu!».
In questo contesto, già aperto alla speranza, si arena proprio sulla costa di Riace un vascello di emigrati curdi, nel 1998. Corre la gente ad assisterli, in una gara di solidarietà, impensabile oggi. Il sindaco Lucano ne coglie il messaggio: tener vivo questo cuore aperto. I curdi restituiscono la solidarietà ricevuta con un dono: aprono un forno e fanno il loro pane. Come a Betlemme, il cui nome significa proprio «città del pane».
Il pane curdo si fa così simbolo di una stagione nuova: quella del restituire, dell’integrare valorizzando le specifiche competenze. Il paese, aperto all’accoglienza, rinasce: antichi mestieri si ravvivano, la terra torna a essere coltivata, i vecchi telai corrono con spolette veloci e colori che sanno di Oriente. La scuola non solo non si chiude, ma cresce. È la storia che si ripete: tutte le nostre terre crescono, accogliendo. E integrando: a Riace, per esempio, la lingua, indispensabile strumento di integrazione, la si impara per strada e a scuola. Perché i migranti non vivono oziosi, in strutture separate, ma sono valorizzati in attività artigianali e imprenditoriali.
Grazie allora a coloro che credono a questo modello di integrazione. Guardano al futuro, per costruirlo insieme. Primavera di luce. Questa è Betlemme, la città del pane, dove il forno del pane cuoce pane per tutti.
Puoi leggere questo e gli altri articoli del numero di dicembre 2018 sulla versione digitale del Messaggero di sant'Antonio!