Bourne si ribella
Bourne è tornato. Si era tenuto nascosto, dopo The Bourne Ultimatum (2007), quando aveva recuperato i ricordi e vendicato i torti patiti. Il controspionaggio Usa deviato lo aveva trasformato in un micidiale killer occulto, che faceva il lavoro sporco. Si declamava la sicurezza statale, ma si violava la privacy dei cittadini (tipico tema di etica pubblica). Bourne viene snidato dal suo nascondiglio per opera di una giovane hacker sua amica, che gli chiede aiuto per diffondere on line i documenti dei programmi segreti. Bourne ora è allo scoperto. Custodisce segreti troppo incendiari. Qualcuno lo vuole morto, a ogni costo.
La trama ci seduce perché parla di etica della mente. C’era infatti un clinico, esperto in neuroscienze, a manipolare l’allievo detective, facendo leva sull’ambizione: «quando avremo finito con te, non sarai più quello che eri, non te lo ricorderai neppure». E a rammentargli: «ti sei presentato tu, volontario, ed eri stato avvertito, volevi servire, volevi diventare chi noi volevamo che tu fossi». Di questa adesione Bourne si sente colpevole. Era stata una scelta libera? Perché Bourne ha accettato la violenza che gli è entrata nelle vene? Perché ha assunto pillole, frequentato palestre, tollerato incappucciamenti, contenzioni, immersioni nell’acqua, colloqui snervanti? Chi crede nel determinismo ritiene che il libero arbitrio non esista; che il cervello produca i pensieri; che i neuroni causino inconsapevolmente le scelte. Ma chi, come Bourne, crede nella libertà, indaga sulla propria identità perduta e sulle ragioni, che lo hanno indotto a gettarsi via. Narcisismo? Dedizione alla patria? Oppure la solidarietà verso un padre vulnerato, che aveva chiesto troppo a se stesso, al figlio e al sistema?
L’altra domanda tocca le neuroscienze. Gli studiosi di bioetica si sono chiesti se sia praticabile e legittimo un potenziamento (enhancement) psichico o addirittura un «miglioramento morale» degli individui attraverso strumenti farmacologici, ingegneria genetica, interventi neurochirurgici o pratiche di condizionamento, anche sotto ipnosi. Antidepressivi, ormoni, allenamenti estremi, esercizi di autocontrollo produrrebbero un aumento dell’empatia, un rafforzamento della concentrazione, un umore più socievole e costruttivo, una gestione matura dell’aggressività.
Non sono mancate le obiezioni e le domande critiche. Possediamo davvero i criteri per valutare e privilegiare una certa qualità intellettuale (ad esempio la rapidità del ragionamento concreto) su un’altra (ad esempio una malinconica capacità contemplativa)? Chi è autorizzato a decidere quale tipo di moralità dovrebbe essere promossa tecnologicamente? Siamo sicuri che l’estensione delle conoscenze corrisponda a una crescita di maturità? A volte, noi sappiamo che cosa è bene fare, ma facciamo la scelta peggiore, magari quella opportunistica. L’educazione morale non è lo scopo precipuo delle scienze della natura.
La biotecnologia si occupa di come si trasformano i corpi, di come funzionano le menti. Ma tace dei perché, relativi all’esistere. L’educazione richiede il calore degli affetti, l’interpretazione dei desideri, l’immaginazione narrativa di una trama, alla quale possiamo dire di sì. Quale giusta causa dà senso alla nostra vita?
Una giovane manager pensa che Bourne si possa recuperare, liberandolo dalla paura e riconvertendolo agli ideali democratici. Ce la farà? Il regista Greengrass ci avverte: non c’è tempo. Il frenetico ritmo del montaggio ci blocca le parole in gola e paralizza i pensieri. L’azione è convulsa e l’imperativo è sopravvivere. Inseguimenti, 170 auto distrutte, una folla di comparse. Una sequenza di due minuti può comprendere decine di inquadrature brevissime, di 2 o 3 secondi. La musica ti eccita e poi, improvvisamente, si spegne nel cuore dell’azione. Cerchi un alleato, una dimora, un rito di salvezza, ma il destino bussa già alle porte. Uomini senza qualità e funzionari stupidamente cattivi assediano Bourne, che deve camminare sopra le vipere, per difendere la sua coraggiosa voglia di lealtà.
Jason Bourne, GB/Usa/Cina 2016, regia di Paul Greengrass, con Matt Damon, Alicia Vikander, Tommy Lee Jones, Julia Stiles, Vincent Cassel; musiche di David Buckley e John Powell.