Conflitto a bassa intensità
Purtroppo non è difficile da prevedere: nei prossimi mesi, non sappiamo quando, il terrorismo tornerà a colpire. Ci saranno altri attentati e altri tragici conteggi di morti e feriti.In Europa è in corso una guerra – a bassa intensità la potremmo definire, per distinguerla da quelle ad alta intensità che si combattono in zone più lontane del globo – e, tuttavia, diffusa, terribile non solo per chi ne rimane vittima, ma anche per chi ne guarda le conseguenze nelle immagini sui mass media. Essa interviene in modo potente, infatti, anche su chi non è direttamente colpito: sulla psiche, sulle emozioni, sul nostro modo di guardare ai nostri simili, di vedere il mondo. Possiamo dire che il terrorismo sta riuscendo nel suo intento più profondo: diffondere la paura, modificare il nostro modo di essere. Ci è riuscito con una strategia precisa, chiara, addirittura accurata, operando con spregiudicatezza non più in luoghi simbolici o durante eventi eccezionali, ma nella vita quotidiana, tra la gente comune, nelle scuole, nei ristoranti, sui ponti, nei locali dove si beve una birra e si ascolta musica, sugli autobus... L’ha fatto presentandosi nella veste dimessa e normale di un ragazzo o di un paio di giovani come tanti, che per armi usano oggetti comuni: un coltello, un martello, un’auto o bombe costruite in appartamenti modesti di periferia.
E noi, noi tutti, siamo cambiati. Abbiamo recepito il messaggio, abbiamo messo la paura dentro la nostra esistenza e, di conseguenza, la diffidenza, la chiusura, il sospetto, l’estraneità. Quel che il terrorismo ha prodotto con la sua guerra a bassa intensità dentro di noi è stato evidente a Torino più di quanto non lo sia stato a Londra, Parigi, Manchester, Nizza, Berlino o in altri luoghi sanguinosamente colpiti. A Torino il panico di migliaia di persone presenti in una grande piazza non è scattato su una bomba, cioè in seguito a un fatto tragico e reale, ma sul nulla. Il panico si è autogenerato, il terrore si è autoriprodotto mostrando in un attimo la fragilità della nostra psiche, l’incapacità di una risposta collettiva e minimamente comune e solidale.La folla impazzita che fuggiva da piazza San Carlo calpestando i più deboli, senza controllo, ci ha mostrato quel che di peggio ha prodotto il terrorismo, la ferita più grave che ci ha inferto. È questa che dobbiamo innanzitutto curare. Contro di essa possono ben poco leggi più severe, dispiegamenti di polizia potenti, controlli inflessibili. E tanto meno proclami solenni sulla decisione di difendere il «nostro stile di vita». Intanto, la nostra vita è già cambiata.
Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti, di tentare di vincere il panico che ci divide e spezza, trasformandolo in un nuovo modo di creare relazioni e solidarietà, di riconoscerci non solo come vittime, ma come nuovi esseri umani capaci di combattere insieme paure che, altrimenti, appaiono invincibili.