Exodus. In viaggio coi migranti
Una foto può ispirare il cambiamento. È questa la filosofia di Nicolò Filippo Rosso. La sua passione per i diritti civili e contro le disuguaglianze lo ha spinto a raccontare storie di comunità abbandonate, fenomeni migratori di massa, conflitti e cambiamenti climatici (www.nicolofilipporosso.com). Dal 2018, dopo alcuni incarichi editoriali, continua a documentare la fuga di cinque milioni di persone dal Venezuela, afflitto da una pesantissima crisi economica e sanitaria, verso la Colombia. Ha seguito i migranti nei loro viaggi della speranza anche dall’America centrale verso il Messico e gli Stati Uniti. Questi scatti hanno dato corpo al suo progetto, Exodus, che gli è valso la vittoria nella categoria «Master» alla XII edizione del Festival della Fotografia Etica di Lodi, dove si è aggiudicato anche il massimo riconoscimento nella categoria «Short Story» con Consumed by grief: un racconto fotografico del ritorno dei corpi di tredici migranti al loro villaggio d’origine in Guatemala, da dove erano partiti per il Texas in cerca di fortuna.
Rosso collabora con riviste, quotidiani e organizzazioni non governative, e tiene regolarmente conferenze su fotografia e giornalismo presso università latinoamericane, statunitensi ed europee. Il suo progetto, Exodus, si è ampliato trasformandosi in una documentazione analitica delle migrazioni nell’intero continente americano. Il fotografo piemontese sta esplorando le cause profonde di questi fenomeni come l’instabilità politica in Venezuela e in Centro America, e le difficoltà d’integrazione delle famiglie emigrate che hanno ottenuto asilo politico o che sono entrate illegalmente negli Stati Uniti.
Msa. Come reagiscono le persone ritratte quando si trovano davanti all’obiettivo della sua fotocamera?
Rosso. Uno dei motivi per cui ho deciso di raccontare la migrazione venezuelana è stato il fatto di percepire che i protagonisti di questo esodo storico fossero lasciati in disparte da molti dei media che lo documentavano, e che tuttora lo documentano. Spesso le migrazioni sono lette e raccontate in chiave politica, economica, e utilizzate dai governi per affermare posizioni autoritarie contro un «male maggiore»: un nemico che genera paura e che viene identificato come la causa dell’instabilità e dell’insicurezza. Ho notato spesso che per le persone rifugiate e migranti che ho fotografato, il fatto che percepissero curiosità e attenzione verso la loro storia, e la possibilità di raccontarla, fosse terapeutico. Cerco di essere molto chiaro nello spiegare loro che si tratta di un progetto fotografico, e che voglio ascoltare e raccontare la loro storia con immagini, in modo che possa essere un riflesso delle storie di tante altre persone che vivono una situazione simile. Quando si genera una corrispondenza emotiva è possibile tradurre un’azione o uno stato d’animo in un linguaggio autentico, che è l’espressione della relazione tra il fotografo e la persona fotografata.
Documentare i viaggi dei migranti l’ha cambiata?
Essere testimone di tanta sofferenza ha inevitabilmente un impatto nella forma in cui osservo la realtà che mi circonda, e non sempre questo avviene in modo cosciente perché si tratta di un processo che avviene un po’ alla volta, determinato dagli episodi che vivo e documento. Gli insegnamenti più grandi arrivano dalle persone che fotografo, che ammiro per tanto coraggio e per la forza necessari per abbandonare la loro casa e iniziare un viaggio lungo e incerto nel tentativo di offrire un futuro migliore alla propria famiglia, ai propri figli. I gesti di affetto e di solidarietà che ho fotografato nel mezzo di circostanze avverse e violente mi hanno insegnato che la vita va avanti e sorprende anche quando le difficoltà sembrano insormontabili.
Ricorda episodi emblematici che legano la sua testimonianza del tempo presente alle persone stesse che ha ritratto?
Quando ho iniziato a fotografare casi di malnutrizione acuta ne La Guajira, una penisola desertica nel Nord della Colombia, sinceramente non sapevo che cosa fare per rendere quelle immagini utili alle persone che stavo fotografando. Ho deciso di raccogliere dati e informazioni in un dossier su ognuno dei casi più gravi e di inviarlo a organizzazioni non governative e a istituzioni colombiane. Dopo aver ricevuto quei documenti, una ong con sede a Bogotà si è offerta di prendersi cura di alcune delle persone che avevo fotografato. Con il suo intervento, l’organizzazione Fucai (Fundación caminos de identidad-Fondazione cammini di identità) ha salvato la vita di un bambino, e ha aiutato una donna di 23 anni, madre di due bimbi di 3 e 5 anni. Soffriva di malnutrizione ed era diventata cieca a causa del diabete. Alla sua morte, Fucai si è presa cura dei due bambini per sei mesi fino a che, quando si sono trasferiti altrove con altri membri della famiglia, abbiamo perso le loro tracce. Grazie a questa esperienza, ho imparato che la fotografia può generare un cambiamento, e da quel momento fotografo con quell’intenzione.
Ha mai provato un senso di impotenza di fronte a fenomeni epocali che la fotografia può testimoniare o denunciare, ma che non può risolvere?
Certo, la magnitudo dei fenomeni migratori, o delle crisi umanitarie e delle guerre è così grande che spesso mi sono chiesto che senso avesse fotografare una realtà che non cambierà presto, o che peggiorerà. Quando, però, accademici, studenti e organizzazioni ricorrono alle immagini dei miei progetti per esplorare la crisi migratoria nelle Americhe, o le conseguenze ambientali e di salute pubblica dell’estrazione del carbone, sento che il lavoro non è stato fatto invano, e che può contribuire a processi già in atto, o a farne nascere di nuovi. Grazie alla visibilità che ha ottenuto Exodus, alcune agenzie di cooperazione internazionale hanno implementato progetti educativi e staff medici proprio in alcuni degli accampamenti di rifugiati venezuelani in Colombia dove avevo realizzato una parte del lavoro. Ogni volta che una fotografia contribuisce a una trasformazione, sono spinto a continuare a lavorare. Il senso di impotenza a cui lei fa riferimento, e la reazione di spegnere la macchina per risolvere un’emergenza, è un’esperienza ricorrente. Certe scelte hanno determinato la durata dei miei progetti che si estendono nella geografia e nel tempo proprio per la relazione di amicizia che a volte si instaura con le persone che fotografo. Ma è quando una persona sta soffrendo di più, quando una madre è sul punto di crollare dopo aver attraversato un fiume con i suoi figli, o quando una donna sviene nel mezzo di uno scontro violento tra militari e rifugiati, che sento la responsabilità di concentrarmi e di scattare la migliore fotografia possibile. Fare buona fotografia è una forma di protesta contro le ingiustizie. Fintanto che le persone continueranno a soffrire, i miei colleghi e io proseguiremo a fotografare e a condividere quelle storie con quante più persone possibile.
Che cosa l’ha indignata maggiormente?
In America Latina la mancanza di opportunità di lavoro, di accesso all’istruzione, la corruzione politica e l’impunità persistono da generazioni alimentando un circolo vizioso di violenza e di spostamenti forzati che sono allo stesso tempo i sintomi e le cause di società frammentate. Fotografare in questo continente significa essere testimone di ingiustizie e di disuguaglianze che, inevitabilmente, determinano una presa di coscienza e di posizione da parte del fotografo: per questo considero la fotografia una forma di protesta. Rabbia e indignazione possono spingere a raccontare alcuni di questi avvenimenti. Se chi è responsabile di tanta sofferenza rimarrà impunito, per lo meno che si conoscano le conseguenze delle loro azioni. Le storie che più mi coinvolgono hanno a che vedere con la nascita, il venire al mondo in una condizione così vulnerabile e precaria da determinare fortemente una serie di ostacoli e traumi fin dalle prime tappe dell’infanzia. Spesso bambini e adolescenti, esclusi da un’educazione regolare e di qualità, non hanno un orizzonte di confronto rispetto alla propria condizione, che rappresenta per loro un criterio di normalità. Per poter sopravvivere in un ambiente dove la violenza è normalizzata, spesso le persone replicano comportamenti aggressivi subiti perché sono un esempio di forza e un metodo per risolvere conflitti.
Come vede, in prospettiva, le ricorrenti emergenze migratorie nel mondo?
Fintanto che esisteranno guerre, povertà, impunità, le persone saranno costrette a spostarsi. Il sistema economico capitalista si nutre di disuguaglianza e sfruttamento. Senza un cambio radicale di sistema, sarà molto difficile applicare politiche migratorie efficaci e concentrate nella ridistribuzione dei privilegi che una piccola porzione di mondo conserva a scapito di una grande maggioranza costretta a vivere nelle avversità, senza accesso garantito a un’alimentazione adeguata, alle cure mediche e all’istruzione.
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