Perché non ho scattato una fotografia?
Viaggiare in Africa è stata una delle esperienze più belle della mia vita. La quantità di bambini che mi hanno accompagnato, mentre cercavo di imprimere sulle vecchie pellicole il bagliore delle emozioni, è riuscita a rendere magico il mio modo di viaggiare.
Sono davvero tanti i bambini che si incontrano durante i «liberi cammini» nel Continente Nero. Sbucano ovunque: dai bordi della strada, dalle bancarelle dei mercati, dagli usci delle case, dalle ombre lunghe degli alberi. Ad ogni passo si è attorniati. Apparentemente tutti uguali, si contraddistinguono tra loro attraverso gli sguardi che sanno donare al viaggiatore. Sempre diversi. Occhi sgranati capaci di celare storie vissute, atteggiamenti pronti a catturare miserevoli compassioni, lacrime ossidate che non asciugano mai.
Non si può non essere visti dai «Bambini Neri»: sentono l’odore dell’uomo bianco, lo vedono brillare sotto il sole. Gli occidentali in viaggio nelle aride terre africane sono miraggi mandati da Dio. Sono desideri lontani da cui ottenere qualcosa.
Sono instancabili «grilli» danzatori, questi bambini. Non si fermano mai. Si aggrappano agli abiti dello straniero, sbraitano tutti insieme, chiedono il cadeau. Sorridono sempre. Prendono per mano gli sconosciuti, tirandoli fino a quasi strattonarli. I più smaliziati provano a infilare le manine nelle tasche dei viaggiatori più distratti: cercano una caramella. Nient’altro. Ci provano, fino a quando vengono scoperti e fuggono via in un battibaleno, scomparendo nella polvere.
Creature bellissime e poverissime, figli della natura coperti di niente, bambini che ogni volta ti porteresti a casa, non solo in un fotogramma rubato o in semplici ricordi.
I bambini africani hanno la particolarità di crescere rapidamente, troppo in fretta. Li si può vedere fin da piccoli accudire i fratellini minori, o lavorare dall’alba al tramonto in cambio di nulla o quasi. Nei casi più estremi diventano «piccoli soldati»: macchine da guerra, addestrati sotto l’effetto di stupefacenti e capaci di qualsiasi cosa. Sparano contro la macchina infernale della povertà, che ha annientato il loro essere puri e ingenui. È difficile essere bambino in Africa. Nella magia di questa realtà e nella speranza di un futuro migliore risiede la luce della loro vita.
Sbalordisce questa infanzia negata, dove i genitori sembrano non esistere. Il mondo volta sempre la faccia, troppo spesso anche davanti all’evidenza di una fotografia che denuncia, che urla. Che dice basta.
Ci si immerge in punta di piedi in queste realtà, non possono essere infrante. Ci si inzuppa di visioni fatte di dolore asciugandosi gli occhi umidi, che a fatica mettono a fuoco. Frammenti di una complessa vita quotidiana fatta di valori tramandati nel tempo.
È difficile rivedere la fotografia di quelle giovani vite spezzate. Fa male. Ci si guarda allo specchio ripensando alla nostra infanzia, tra compagni di scuola che indossano la blusa nera con l’ingenuità di volere crescere in fretta. Quando si spengono le luci dello spettacolo, quando anche l’ultimo riflettore smette di illuminare quel mondo fatto di fame, ci si lascia sopraffare dall’intimità della riflessione.
Gli psicologi lo chiamano il «gioco dei ricordi». Le memorie di una vita passata, le nostalgie dell’età. Il momento in cui si rispolverano le istantanee archiviate nella mente, e si rivedono le fotografie non scattate.
Si viene circondati e assorbiti dalle esperienze vissute quando si torna a casa, dopo un lungo viaggio. Si avverte l’odore della gente incontrata e abbracciata, si cade nella paranoia del sentirsi spiati da occhi sconosciuti appena incrociati. Le impronte lasciate nel terreno prendono forma attraverso la contemplazione di un paio di scarpe mai pulite. Le immagini attraversano la mente, scorrono veloci come in un film senza fine.
È ormai impolverata la macchinina giocattolo fabbricata con le lattine di scarto della Coca Cola. Da anni è sulla mensola alta dello studio. Era stata acquistata in uno dei tanti viaggi in Etiopia, in un villaggio senza nome della brousse. Si fa fatica a togliere lo sguardo da quell’opera d’arte, è come se qualcosa di misterioso legasse in modo indissolubile alla sua forma approssimativa.
Capita di perdersi nell’irrealtà dei sogni, di nutrire il desiderio di regalare a quei bimbi la dignità di una celebrazione attraverso un’immagine. Quella dignità con la quale, quotidianamente, giocano con la vita correndo a piedi nudi sulla terra e ridendo in faccia al sole.
In alcune circostanze, nonostante il tempo trascorso, si risente ancora il frastuono di quelle risate. La cadenza musicale è sempre la stessa: struggente, in una melodia stonata che avvinghia e modella l’anima. Sappiamo tutti molto bene cosa nascondevano quelle risa, è laborioso far finta di nulla e restare inermi. È quasi impossibile dimenticare. Il pensiero ritorna in quei luoghi, in quei giorni andati, in quelle visioni appannate sbirciate attraverso un mirino. Che ne sarà di quei bambini? Perché non ho scattato una fotografia?