La bambina dai capelli spettinati
A Taouz, dove sbiadisce l’ultimo lembo di asfalto della strada che dall’Atlante porta alle oasi sahariane, iniziano le vie di comunicazione del Sahara. Tracce create e incise dall’uomo, nell’eterno tempo di questo spazio infinito. Impronte che fievolmente lasciano intravedere la direzione di un cammino, verso orizzonti dai profili delicatamente disegnati dalla natura. Piste in terra battuta che apparentemente non portano in luoghi precisi, che non appartengono a nessuno, che ingannano l’occhio inesperto. È una realtà fuorviante, ma anche sincera. Onesta. Ogni solco lasciato nel terreno dal viandante che ci ha preceduto, ha una sua destinazione ben precisa. Una sua storia. Basta seguirlo con fiducia, e lasciarsi trasportare dal tempo verso un luogo sognato, senza fretta.
L’assenza di ogni forma di vita, e il nulla della vastità del reg che amalgama i ciottoli alla sabbia finissima trasportata dal vento, scompagina l’impatto emotivo. A tratti è difficile gestire il brusco cambiamento di una visione stagnata, che fino a quel momento è stata assuefatta al turbinio della vita di qualche parallelo più a nord. È la terra degli Imazighen, questa. Gli «Uomini liberi» come recita il significato del loro nome. Ricchi di una storia antica, gli Imazighen, in occidente meglio conosciuti come Berberi, intorno al 1000 a.C. erano a capo dei «Mashuash» e divennero addirittura faraoni. In epoche successive, intorno al III secolo a.C., si sviluppano veri e propri stati berberi, con una loro organizzazione e propri re. I regni di Mauretania e Numidia ne sono una fervida testimonianza giunta fino ai giorni nostri da cenni storici greci e latini, a partire da Erodoto. «I Berberi hanno la testa dura» così dicono di loro gli arabi marocchini delle città del Maghreb. Nonostante la lingua berbera fu in passato duramente repressa dai Paesi del Nordafrica che si proclamavano arabi, a nulla sono valse le sistematiche campagne di arabizzazione. I Berberi continuano a vivere isolati dal resto del Marocco, nella loro casa fatta di sabbia e cielo, guardando le stelle negli occhi.
Nel Sahara ci si muove seguendo pochi riferimenti: una montagna lontana, un bagliore di luce in forte contrasto col colore ocra della sabbia, una balise posata da chissà chi nella vastità del luogo, una sagoma indefinita che sembra mutare ad ogni respiro, per prendersi gioco del limite visivo disegnato da qualcuno per la natura umana. Un riparo, una costruzione che spunta dal nulla nella terra bruciata dal sole, dove tutt’intorno si sente respirare solo l’harmattan: il vento arroventato del deserto. È l’innata curiosità del viaggiatore che porta ad immergersi in questa realtà primordiale fatta solamente di pura essenza vitale.
Nel riverbero di un miraggio che appare alle prime ore del meriggio, la vibrazione di una messa a fuoco resa nitida dall’irrealtà di una parvenza di vita avvolta dai ricordi di un sogno, accende il barlume di un incontro armonioso con la gente del posto. Una tenda costruita col tradizionale tessuto ricavato dalle fibre della lana che copre il manto del dromedario, un paio di capanne aggiustate con corde giuntate da sapienti nodi. Abita qui la famiglia berbera dei Matoub, nel mezzo di una piana isolata spazzata dal vento, lontana da tutti. Fuori dal mondo del terzo millennio.
Non è mai scontato l’approccio con culture diverse. Spesso sono i bambini del posto a correre incontro e a stringere per primi la mano a uno sconosciuto viaggiatore. Noi occidentali non saremmo capaci di fare altrettanto. È una bambina col viso tondo ad offrire il benvenuto allo straniero, in questo «non villaggio» dei Matoub. Ha i capelli schiariti dal sole e permanentati dalla sabbia. È vistosamente spettinata. Dice di chiamarsi Leila, non aggiunge altro, neppure un sorriso. È lei l’incontrastabile regina di questa «corte» senza linee perimetrali.
Gli occhi di Leila hanno un’espressione penetrante. Trafiggono. Emanano il misterioso fascino che la caratterizza e la rendono nobile. Il suo sguardo cambia espressione al ritmo del batter d’ali di una farfalla. Sa commutare la riflessione di un pensiero con il sorriso della libertà, per poi immergersi nel sottile velo della solitudine che, inevitabilmente, la natura del luogo trasmette all’anima. È difficile coglierla in una messa a fuoco ravvicinata, Leila guarda sempre lontano, dove le geometrie del deserto provano ad abbracciare il cielo. È loquace la ragazzina, a modo suo. Parla berbero e qualche parola di arabo, niente di più. Ma è brava a interagire con gli sconosciuti. Sa capire, e farsi capire.
È Leila ad accogliere i viandanti delle sabbie, sa fare gli onori di casa. Poco lontano, la giovane madre è intenta nelle faccende domestiche. La si vede armeggiare, tra i fornelli di una cucina improvvisata, ricavata in una capanna dalle pareti piegate dal vento. È dedita ai suoi compiti, la sua attenzione è completamente rivolta a una pentola ricolma d’acqua che sta per bollire. Sta preparando il tè per gli inattesi ospiti arrivati da lontano.
Il tè, quasi sempre alla menta, viene offerto agli invitati rispettando antichi rituali tramandati di generazione in generazione. L’infuso dovrà essere versato dalla teiera al bicchiere, per poi essere riversato nel recipiente più grande. La tradizione impone che la bevanda dovrà essere miscelata per cinque volte. Il beccuccio della teiera, rigorosamente bollente, dovrà essere tenuto il più distante possibile dal bordo del bicchiere. Il vero tè berbero, appena versato, deve fare schiuma, altrimenti non si deve bere. È un’usanza antica tanto quanto gli uomini che abitano queste desolate lande.
È Djamila, la mamma di Leila, a servire il tè agli uomini che se ne stanno sdraiati sotto la tenda. Avvolti nel loro burnus, il tradizionale mantello berbero con cappuccio, passano il tempo parlando di bestiame, di pozzi d’acqua nascosti in prossimità delle dune, di pascoli rinsecchiti coperti dalla polvere. Sorseggiano tè, un bicchiere dopo l’altro, lentamente. Seguono il ritmo di un rito atavico, mentre fuori, il tempo passa non disturbato dalle lancette dell’orologio. Il sole proietta ombre, che diventano sempre più lunghe col passare del tempo. La palla di fuoco gioca con l’orizzonte e lo accarezza, prima di tuffarsi oltre il profilo indefinito della terra. Dove il mondo, quando fa buio, sembra scomparire nell’universo che nessuno conosce.
Karim, il piccolo della famiglia Matoub, gioca con una palla nell’immenso rettangolo immaginario di un campo da calcio. Chissà se da grande diventerà un calciatore. È il sogno di ogni ragazzino, a tutte le latitudini. Purtroppo. Leila, la giovane regina della «corte», aiuta mamma Djamila nella preparazione della cena. Il Ramadan è finito da poco, la dispensa di famiglia è ancora ben fornita, non mancherà cibo in tavola, questa sera. Leila non cammina, ondeggia lentamente nel nulla che separa la tenda che funge da soggiorno e la sala da pranzo. Tra il raffinato arredo fatto di tappeti di buona fattura, cuscini ben imbottiti e tavolini di foggia pregiata, bisogna sapersi muovere con maestria per non inciampare. Lei lo sa fare egregiamente. Sa tenere ben saldo il vassoio di metallo colmo di datteri, ma anche quello con la teiera e i bicchierini per il tè. Leila raramente sorride, ma il suo sguardo è ammiccante, vispo. Sa conquistare l’attenzione degli sconosciuti. Nonostante la giovane età, ha già capito di essere bella e di avere qualcosa in più rispetto alle sue coetanee. E se ne vanta, anche se con discrezione.
Il vento gioca con Leila, spettinandola in continuazione. Ma lei non si scompone, con un colpo delle mani si aggiusta la chioma cercando di farla aderire alla forma della testa. Le raffiche che creano incontrollabili mulinelli d’aria non demordono, dispettose si accaniscono nuovamente sulla giovane regina, regalandole una nuova «spettinatura». Diversa dalla precedente. Un nuovo volto prende forma, una nuova identità si materializza nella ricchezza di una magia che si amalgama con la surrealtà del luogo. Leila, come tutte le nobildonne aristocratiche del deserto, è condannata a vivere con le mani tra i capelli. Spettinata per sempre, come tutte le cose belle di questa vita.