Gioia Tauro, la via dei segni

Da una terra soffocata dalla ‘ndrangheta, la testimonianza di Vincenzo Alampi, direttore della Caritas diocesana, espressione di una Chiesa che ha colto la sfida della legalità.
10 Febbraio 2021 | di

Osservare la Calabria con gli occhi di sant’Antonio, ripercorrendone i passi che lo videro risalire la via Popilia a 800 anni di distanza dal suo passaggio, è un viaggio che chiede sensibilità, umiltà e capacità di superare i pregiudizi. Al centro il tema della legalità, che Antonio sviluppò in tutta la sua vita. L’obiettivo è dare luce a quei semi di speranza che già sono coltivati dai calabresi, anche se, come si sa, il male fa sempre più rumore.

La Chiesa calabrese ha iniziato nel 2017 la seconda fase del progetto «Costruire la speranza», un percorso pastorale per promuovere buone pratiche di giustizia e legalità. Tra gli obiettivi concreti, la formazione all’economia sociale d’impresa e l’utilizzo dei beni confiscati alla criminalità per attività e servizi che hanno come fine il bene comune: «opere segno» – le chiamano nei documenti – lampadine accese nel buio di un territorio che vive sotto la stretta della 'ndrangheta. Tutte e dodici le diocesi calabresi hanno aderito al progetto e molte opere segno già brillano nella notte.

Una delle strade di Calabria più illuminate in tal senso è quella che dal casello dell’E45 conduce al centro di Gioia Tauro (Reggio Calabria), la città del porto più importante del Mediterraneo. In circa un chilometro molti edifici confiscati alle più potenti 'ndrine spargono luce: la sede della Caritas della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi e quella della Croce Rossa, la caserma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, il consultorio familiare, la biblioteca, un istituto scolastico...

Su tutti spicca una chiesa bianca, alta, inaugurata da monsignor Francesco Milito, vescovo di Oppido Mamertina-Palmi, nel 2017, e dedicata a san Gae­tano Catanoso, primo sacerdote diocesano della chiesa reggina a diventare santo. Morto nel 1963 e canonizzato nel 2005 da Benedetto XVI, san Gae­tano è un frutto santo di questa terra di bellezze e contraddizioni. Sulla mensa dell’altare, in liscio cemento, è scolpito un rivolo rosso, ancor più evidente nelle architetture essenziali della chiesa: è il sangue delle vittime della ?ndrangheta, che si mescola a quello di Cristo che salva dal peccato. Un segno potente, insieme monito e trasformazione, memoria del dolore e possibilità di riscatto. Per la gente e persino per i mafiosi. Anche da questa chiesa idealmente passerà sant’Antonio.

«Circa quindici anni fa, mi trovavo qui a Gioia Tauro, davanti a un grande fabbricato confiscato alla famiglia Molè – racconta Vincenzo Alampi, direttore della Caritas della diocesi Oppido Mamertina-Palmi –. Stavo studiando gli spazi per ricavarne la nostra nuova sede. L’edificio necessitava di una ristrutturazione pesante, perché i clan prima di cedere un bene spesso lo danneggiano. D’un tratto mi si avvicinarono un uomo e un ragazzo e mi accusarono di aver detto alla stampa che a Gioia Tauro erano tutti mafiosi. Dissi loro che non era vero, e che quello era un bel giorno, perché quell’edificio sarebbe diventato la sede della Caritas diocesana, un bene per tutti».

In realtà era una minaccia in stile mafioso. L’uomo, dopo aver ascoltato Vincenzo, gli disse: «Non vi faranno niente perché siete la Caritas, altrimenti vi avrebbero distrutto». Ora che in quella sede, nel chilometro più luminoso di Gioia Tauro, c’è il Centro d’ascolto, l’Istituto di scienze religiose e l’Osservatorio delle povertà, Vincenzo è raggiante. «E la storia non si ferma qui. Lo Spirito agisce in modi che neppure immaginiamo». Vincenzo lascia sospeso il discorso, ma che cosa intende con quello «Spirito che agisce» rimane una domanda su cui tornare. 

Nella Piana di Gioia Tauro, un territorio che corrisponde a quello diocesano (180 mila abitanti, 33 comuni, 69 parrocchie), tutti conoscono Vincenzo e lo chiamano «Cecè». È un diacono, padre di quattro figli, ministro regionale dell’Ordine francescano secolare, ma è soprattutto uno che se trova una persona nel bisogno non distingue né notte né giorno: «Davanti a chi sta male – spiega – posso io dire di non avere tempo?». Conosce ogni dolore di questo territorio: «In questa terra sperimentiamo ogni giorno un senso di abbandono – racconta –. Viviamo di agricoltura e impieghi pubblici, l’industria non ha attecchito perché la 'ndrangheta fa terra bruciata. I nostri figli se ne vanno, mentre i figli di altre terre vengono a raccogliere le nostre arance, pagati come schiavi. Non c’è la politica, non c’è la sanità, eppure non mancano le eccellenze: il liceo San Paolo di Oppido Mamertina è tra i migliori d’Italia e tanti sono i nostri ragazzi che potrebbero cambiare il mondo. Il nostro impegno come Chiesa di Calabria e Caritas diocesana è di accompagnare, educare, tenere accesa la speranza». 

Chi lo conosce sa che il Cecè che parla di speranza ha rischiato in realtà di perderla tante volte, per questo le sue parole pesano: «Nel 1991 hanno ucciso mio padre – confida –, perché era andato ad aiutare un amico agricoltore, sulla cui terra la ?ndrangheta aveva messo gli occhi». Ma il motivo di quel delitto non fu chiarito immediatamente. Gli inquirenti pensavano a un regolamento di conti e la magistratura a lungo indagò sul passato della famiglia, senza trovare nulla.

Cecè invece credeva di saperne il motivo e non si dava pace: «Era un periodo violento – ricorda –. Morivano decine di persone a causa di faide familiari. La gente a una certa ora aveva paura di uscire di casa. E allora io animavo veglie di preghiera contro quello stato di cose, perché le persone non si sentissero isolate e superassero la paura e la tentazione di arrendersi. Qualche giorno prima della morte, mio padre mi aveva detto: “Lassa stare”. Gli risposi: “Papà, ma se nessuno fa niente?”. Alla fine delle mie spiegazioni annuì, dicendomi: “Hai ragione, vai avanti”». Quando, però, Vincenzo seppe che lo avevano ucciso, il senso di colpa lo schiacciò: «Pensavo di aver causato la morte di papà, non ho mangiato per un mese, ero sopraffatto. Nel giorno del suo funerale due uomini mi avevano avvicinato, proponendomi vendetta. Allora presi coraggio, andai sull’altare e dissi: “Non vendetta ma perdono, preghiamo perché gli assassini si convertano”». 

Da diciotto anni Vincenzo è direttore della Caritas diocesana: le sue giornate e quelle dei collaboratori non finiscono mai. La pandemia ha peggiorato una povertà che già c’era. «Nei mesi di lockdown più duro abbiamo raggiunto 3.500 famiglie isolate; oggi, tramite le Caritas parrocchiali, aiutiamo più di 30 mila persone, il doppio del solito. Seguiamo ogni caso a seconda della necessità: c’è chi non ha lavoro, chi è perseguitato dagli strozzini, chi non riesce a pagare le medicine, chi è senza casa, chi non ha cibo a sufficienza. Se neppure la Chiesa dà speranza, chi aiuterà le persone a non finire nelle mani della ’ndrangheta?». È la lezione di don Tonino Bello tradotta in calabrese: nelle mafie e nell’illegalità c’è una sfida teologica per la Chiesa, una sfida che si vince con la solidarietà e il servizio e che, alimentando la speranza, diventa profezia. E non a caso iniziative come quella della Caritas diocesana riscuotono interesse tra giovani e ragazzi, che in esse riconoscono i semi di speranza per un futuro diverso.

Ma la speranza da sola non basta. Per procedere ci vogliono i segni ma anche i frutti. Quello Spirito che agisce nei modi che noi neppure immaginiamo – di cui prima parlava Cecè – a che cosa porta? «Ho visto tante conversioni – confida –, cambiamenti radicali spesso  inattesi. Qualche anno fa due donne bussarono alla porta della Caritas da poco aperta a Gioia Tauro. La più anziana mi disse che non avevano nulla da mangiare. Gli diedi del cibo e mi offrii di accompagnarle a casa, dicendo loro di tornare se avessero avuto bisogno. Non sapevo chi fossero. Il mese dopo tornarono e la donna mi disse che marito e figlio erano in carcere: la 'ndrangheta li aveva usati e poi abbandonati dopo tante promesse, “invece voi ci avete dato cibo, senza chiedere nulla in cambio. Mio marito e mio figlio sono quelli che vi avevano minacciato, quando voi avevate preso in mano l’edificio sequestrato ai Molè”».

Parlarono a lungo, sapendo che nulla sarebbe più stato come prima. «L’intera famiglia è passata a trovarmi tanto tempo dopo – conclude Vincenzo –, tutti si erano rifatti una vita onesta e avevano la coscienza serena. Il cambiamento è nelle piccole cose. Bisogna essere in tanti, capaci di solidarietà e di parlare chiaro, in modo semplice, rimanendo aderenti ai propri valori». È proprio vero, le luci ci sono anche nel buio. Bisogna solo imparare a vederle.

 

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Data di aggiornamento: 10 Febbraio 2021
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