Giovanni Allevi: rivoluzione in musica
A vederlo sul palco, con quel fisico allampanato, quella massa di lunghi capelli ricci e quel modo di fare un po’ impacciato scatena un’immediata simpatia che si trasforma ben presto in stupore e poi in un’ammirazione sfrenata non appena le sue lunghe dita affusolate sfiorano la tastiera del pianoforte. A quel punto Giovanni Allevi pare rapito in un mondo parallelo, e noi con lui. Un mondo magico, incantato, in cui la musica regna sovrana. Lo scorso mese, in occasione del Giugno Antoniano, il celebre compositore e pianista si è esibito a Padova, nella Basilica del Santo, con lo spettacolo In Parole e Musica.
Msa. Maestro, finalmente si torna alla musica dal vivo: che effetto le fa questo ritorno?
Allevi. La mia è un’attitudine contemplativa e solitaria. Ho passato il lungo periodo di isolamento a cercare di dare un senso alle ossessioni e ai comportamenti maniacali e ripetitivi a cui resto avvinghiato. Tornare a suonare dal vivo con il pianoforte solo, sarà liberatorio, spaventoso e sublime insieme.
L’11 giugno era a Padova, nella Basilica del Santo, con In Parole e Musica, un’ora e mezza di dialogo con Pino Strabioli, intervallato dalle note del suo pianoforte. Avete parlato di carriera, musica, fragilità, ma anche di pandemia. Com’è nato questo spettacolo?
È nato da un’autentica venerazione che ho per Pino Strabioli. Mi intervistò molti anni fa e già allora restai affascinato dal suo garbo e dalla sua profondità. Molti anni dopo ci siamo ritrovati. È stata una gioia condividere con lui un momento così importante per tutti noi.Lei ha saputo dimostrare che esiste una nuova «musica classica contemporanea» nella quale convivono le forme della tradizione con i suoni del presente. Uno «stile» che ha contribuito ad avvicinare a questo mondo moltissimi giovani, anche se forse non sempre è stato capito dai più «conservatori».
Da dove nasce questa sua personale visione?
In realtà, i «conservatori» sono stati i primi a capire le mie intenzioni, la mia visione della musica, e ne hanno avuto paura. È molto più comodo che tutto resti immobile. Purtroppo per me, l’attuale cultura dominante per nulla incline al cambiamento, sembra dar ragione a loro, almeno per il momento. La mia voglia di «cambiare le carte in tavola» è nata da una insoddisfazione, dopo oltre vent’anni di studio accademico. Il passato glorioso mi appariva lontano, mentre il presente musicale era o incomprensibile come nella dodecafonia, o troppo semplice come nel minimalismo, oggi di gran moda. Riproporre le complesse forme classiche con ritmi e melodie nuove mi è sembrata l’unica evoluzione possibile per la musica colta. Il prezzo di questa scelta è stato altissimo. Per le ingiuste critiche ricevute ho passato anni in analisi, e un’insonnia cronica sembra non volermi più lasciare.
Revoluzione, Innovazione, follia e cambiamento è il titolo del libro che ha scritto durante il primo lockdown, dove quel «Revoluzione» è un neologismo nato dalla sintesi delle due parole «rivoluzione» ed «evoluzione». Un libro coraggioso, che parla di nuovi orizzonti, di memoria.
È un saggio filosofico in cui ho voluto mettere nero su bianco parole che affrontassero per me questioni di vita o di morte. A partire da una profonda crisi interiore, voglio raccontare l’idea di una rinascita che può essere anche collettiva. Nel mio ultimo concerto a Tokyo le mani si sono bloccate durante l’esecuzione di un brano. Da quell’episodio traumatico ha preso avvio, in pieno lockdown, la scrittura del saggio, che so essere entrato lentamente nel cuore di moltissimi lettori.
Come possiamo, secondo lei, non sprecare la drammatica esperienza vissuta in quest’ultimo anno?
Accanto alla drammaticità e al dolore che molte famiglie hanno vissuto, in questo assurdo periodo si è affacciato alle nostre menti un mondo nuovo. Un mondo più femminile, più umano, meno competitivo. La consapevolezza della nostra fragilità deve portarci tutti, e soprattutto me stesso, a vivere ciò che abbiamo con il massimo dell’intensità e della riconoscenza. Ogni giorno è un dono inestimabile.
Nei mesi di pandemia, ha realizzato Allevi in the jungle, un programma disponibile sulla piattaforma RaiPlay, per il quale lei è sceso letteralmente in strada, incontrando i buskers, gettandosi – un po’ contro la sua natura – nella giungla metropolitana. Che cosa le ha dato quell’esperienza?
Sono stato mosso da un intento sovversivo, dopo i difficili trascorsi con il mondo accademico musicale. Ho voluto dimostrare che la vera creatività, il vero spirito innovativo, nascono dalla strada e non dagli ambienti protetti e benestanti. Ho vinto così la mia timidezza per dialogare con ragazzi straordinari, artisti e filosofi, che hanno scelto la strada come palcoscenico. Nei loro occhi ho visto la scintilla dell’innovazione e il risultato dei nostri dialoghi mi ha commosso fino alle lacrime.
Lei non ha mai nascosto la sua fragilità. In una recente intervista ha dichiarato: «Io ho paura di tutto». E nel suo precedente volume, L’equilibrio della lucertola, racconta il momento in cui si è accorto che stava per perdere il suo personale equilibrio. È riuscito a fare pace con i suoi fantasmi interiori?
Farci pace è impossibile. Forse è proprio questo aver paura di tutto alla base della ritualità compulsiva dei miei gesti ripetitivi. O magari, come ritengono alcuni psicologi, pare che io sia affetto da uno spettro dell’autismo. In ogni caso, ogni minimo cambiamento nella vita quotidiana scatena la mia ansia. Tranne che nella musica! Lì mi lascio davvero travolgere dal suo vento impetuoso e imprevedibile, ritrovando la libertà nei movimenti e una profonda gioia di vivere.
È opinione comune che il mostrare la propria fragilità esponga sempre, in realtà, al rischio di venire feriti. Perché lei ha deciso invece di parlarne apertamente?
Sono cresciuto in un ambiente, quello della musica classica, dove devi essere perfetto, meglio se arrogante e intollerante. Mi sono presto accorto, però, che il nucleo più profondo dell’essere umano è la sua fragilità, ed è proprio da essa che nasce la creazione artistica più autentica. Posso anche essere ferito da certi giudizi, ma almeno so di non tradire me stesso.
Facciamo un passo indietro verso la sua infanzia. Ci racconta com’è nato il suo amore per la musica? È vero che suo padre non voleva che lei suonasse?
Non ne sono stupito! La strada della musica colta è in salita e sono poche le soddisfazioni che puoi ricevere in una vita fatta di studio e sacrifici. Mio padre ha preferito chiudermi a chiave il pianoforte nella speranza che io scegliessi di fare altro. Ma quel divieto ha scatenato in me un desiderio irrefrenabile e un giorno, a 5 anni, ho scoperto dov’era nascosta la chiave.
Che cos’è che l’ha spinta a insistere, nonostante le difficoltà incontrate all’inizio del suo percorso artistico?
Mi entusiasmava l’idea di fare qualcosa di totalmente nuovo, come fosse una missione eroica senza speranze: portare la musica classica verso una possibile evoluzione. Per molti anni ho lavorato e composto in solitudine, convinto che non sarebbe accaduto nulla. I problemi sono arrivati dopo, quando cioè mi sono accorto che il mio intento era stato accolto dal mondo esterno. Accolto e rifiutato al tempo stesso!
Joy, Sunrise, Love, Equilibrium, Hope… molti dei suoi album hanno titoli che evocano orizzonti «positivi». È come se lei ci dicesse che, attraverso la musica, possiamo sempre e comunque «risorgere» dalle difficoltà e uscire ancora «a riveder le stelle». È davvero così?
Io capisco il diffuso senso di noia e di scoraggiamento che ci circonda. Dovremmo essere felici di ogni secondo che ci è dato, e invece, almeno io, sono angosciato dal futuro e in colpa per il mio passato. Qualcosa non va. Dovrei farmi inondare da una infinita bellezza, che è qui fuori, ma non riesco a vederla. Affido allora questo compito di primaria importanza alla Musica. Lei è in grado di infrangere il velo della consuetudine; grazie a lei recupero lo stupore incantato per il mondo.
Qual è il suo rapporto con la fede? Ha raccontato che da ragazzo ha attraversato un periodo di forte critica nei confronti del mondo ecclesiale. Che cosa è accaduto poi?
Non avevo nulla contro il mondo ecclesiale, ero semplicemente ateo. Avevo 20 anni e il mio unico amico era un giovane sacerdote poco più grande di me: don Mauro. Io studiavo filosofia all’università, lui insegnava già teologia. Io non credevo a niente, lui era animato da una fede incrollabile; io ero chiuso con orgoglio nelle mie posizioni, lui, nonostante l’immensa cultura, era un parroco di periferia vicino ai giovani. Le nostre estenuanti discussioni giungevano sempre a un vicolo cieco. Un giorno, all’improvviso, il mio unico amico morì in un incidente stradale. «No, così non vale...» pensai, prima di chiudermi in un dolore sordo. Poi, col tempo, è avvenuto uno strano miracolo. È come se avessi raccolto il suo testimone, per continuare la sua missione. Ho sentito sgorgare dentro di me la sua stessa fede, la stessa passione, lo spirito rivoluzionario sempre vicino alla gente.
Tornando alla sua esibizione nella Basilica di Sant’Antonio, cosa apprezza o la incuriosisce di più del nostro Santo?
È per me di esempio l’impegno che Antonio di Padova ha sempre dedicato alla conoscenza teologica, volendo nel suo tempo contrastare l’eresia catara. Viviamo oggi in un’epoca in cui sembra superfluo conoscere e approfondire in maniera specialistica una disciplina, visto che tutti parlano di tutto. Con la conseguenza che il sapere non evolve, il passato viene santificato e le decisioni importanti sono relegate ad altri.
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