24 Febbraio 2021

Il jazz secondo Marco Pacassoni

Talento precoce, artista eclettico, docente in Italia e all’estero, il vibrafonista marchigiano è una stella della musica contemporanea.
Il jazz secondo Marco Pacassoni

© Daniele Lanci / Brigidas Studio

«Avevo 10 anni e diedi il mio primo concerto con una band locale con cui suonavo la batteria. Allora “scomparivo” dietro i tamburi perché ero appena un bambino. Ci esibimmo in una rassegna al palazzetto dello sport di Orciano, vicino a Fano (PU). Era dedicata al gruppo dei Nomadi. Vennero anche tre di loro. Io e la mia band suonammo davanti a 400 persone». A differenza dei suoi ricordi di allora, oggi Marco Pacassoni non passa certo inosservato sia per l’energica simpatia che trasmette, sia per la presenza in scena. Diplomatosi con lode al Conservatorio Gioachino Rossini di Pesaro, e laureatosi in Professional Music al Berklee College of Music di Boston, anche qui con lode, Pacassoni ha visto decollare la sua carriera internazionale molto precocemente. Ha collaborato con musicisti della caratura di Michel Camilo, Alex Acuna, Horacio Hernandez, Steve Smith, John Beck, Amik Guerra, Trent Austin, Greg Hutchinson, Chihiro Yamanaka, Malika Ayane, Petra Magoni, fino ai nostri Luca Barbarossa e Paolo Belli, esibendosi nei festival più importanti e pubblicando numerosi album (www.marcopacassoni.com). Pacassoni è anche docente di strumenti a percussioni presso il Liceo Musicale Guglielmo Marconi di Pesaro e la University of Texas a San Antonio. E tiene masterclass di vibrafono in prestigiosi college americani.

Perché proprio il vibrafono e le percussioni? «Nascendo batterista – racconta – mi sentivo limitato, e volevo scoprire anche il mondo della composizione, del pianoforte, dell’arrangiamento, dell’improvvisazione. E lo strumento che faceva da tramite, tra pianoforte e batteria, è il vibrafono: una specie di “pianoforte” suonato con “bacchette rivestite”». A influenzarlo sono stati anche il papà e lo zio. «Mio padre era un chitarrista amatoriale. Aveva un gruppo fatto di ragazzi di Fano che volevano tentare l’avventura, ottennero un brillante risultato a un festival a Rapallo, ma poi continuarono a suonare nelle balere di Cattolica, Riccione e della zona di Pesaro. Papà mi ha trasmesso la passione per la musica, i concerti, l’ascolto di gruppi storici della musica classica ma anche del rock. Io sono un fan dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Led Zeppelin». Ogni artista, del resto, ha i suoi beniamini ai quali si ispira. «La bellezza della musica sta nel lasciarsi contaminare da tutti gli stili. Sono cresciuto con la musica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ma ho ascoltato anche classica, jazz e fusion». Un insieme di generi e stili che hanno concorso a definire la sua personalità musicale e la sua carriera. Ascoltando i suoi album, è difficile collocarlo in una categoria. «Finisce tutto per sintetizzarsi in un unico stile: il contemporary jazz. Un jazz contemporaneo che, come vediamo anche in Pat Metheny e Michel Camilo, rivela un’attitudine a una contaminazione di stili».

Nel 2005 Pacassoni ha vinto il premio di miglior «talento jazz» italiano al Concorso Chicco Bettinardi di Piacenza. «Il jazz per me è l’espressione di quello che uno è. Nel jazz è difficile suonare quello che uno non è. Quando devi improvvisare, fai quello che conosci, quello che hai dentro, e puoi esprimere solo quello. Il jazz è, allo stesso tempo, l’espressione artistica e umana di un musicista». L’artista marchigiano svolge anche un’intensa attività didattica con i giovani, sia in Italia che all’estero. «Quello che cerco di trasmettere ai ragazzi è il valore dello sviluppo della crea­tività musicale e la disponibilità a farsi influenzare da tutti gli stili, senza focalizzarsi su uno solo. Possiamo essere amanti del jazz tradizionale. Se uno è vibrafonista può amare Milt Jackson o Lionel Hampton. Questi sono artisti del passato, e la gente è affezionata alla loro musica. Ma per quanto uno possa essere bravo, il fatto di emularli o copiarli non porterà a nulla. E quindi bisogna sviluppare la propria personalità musicale attraverso l’influenza di tutti questi stili e dei tanti artisti che uno deve seguire per costruire il proprio bagaglio culturale. Purtroppo viviamo in un’epoca in cui siamo influenzati tantissimo dai social media, dai video autocelebrativi, dal mostrare quanto si è “bravi”. Ma è tutto tempo sprecato. Bisogna chiudersi nella propria stanza a studiare, e non a registrare video per farsi vedere. Alla fine, se sei bravo devi dimostrarlo su un palcoscenico, in teatro, e non davanti a una telecamera».

Una delle ultime esperienze all’estero di Pacassoni è stata in Cina e in Giappone dove esiste una cultura dell’ascolto molto rispettosa dell’artista in scena. «Spesso a un jazz festival ti aspetti subito un applauso. Invece in Cina e in Giappone c’è un silenzio totale finché non hai concluso il tuo brano. Alla fine esplode un tripudio di applausi. Una cosa che dobbiamo far riscoprire alla gente è il valore della bellezza di assistere a un concerto live, cercando di viverlo a 360 gradi con l’artista perché è un’emozione che ti resta per tutta la vita. Quando ero piccolo e papà mi portava ai concerti, non c’erano gli eventi su youtube. Ma la bellezza di partecipare a un concerto era ed è impareggiabile: dal viaggio per recarti al concerto, al momento di prendere posto, fino a quando chiudi gli occhi per vivere intensamente il momento musicale. E poi, se è possibile, quando conosci l’artista alla fine del concerto».

Nella carriera di Pacassoni non mancano le esibizioni con artisti di origine italiana all’estero. «Mi è capitato di suonare con insegnanti sia a San Antonio in Texas, a St. Louis in Missouri, e a Washington DC, e di incontrare tanti italoamericani che amano l’Italia e la nostra cultura. Suonare insieme dipende anche dall’estrazione culturale che uno ha, dall’educazione musicale – e non solo musicale – che ha ricevuto. Io mi sono formato al Conservatorio di Pesaro, ma poi la specializzazione l’ho fatta a Boston. Negli Stati Uniti, gli insegnanti e le strutture che ho trovato mi hanno consentito di completarmi. Io sono dell’idea che i ragazzi devono frequentare le scuole in Italia, laurearsi, ma dopo devono maturare esperienze all’estero: Stati Uniti, Olanda, Francia, per esempio». La cosa importante è non sbagliare docente, soprattutto se si è all’inizio e si prendono lezioni private. «Un insegnante sbagliato può compromettere tutta la carriera dando un’impostazione errata, e indirizzarti secondo i suoi gusti. Invece un insegnante deve cercare di dare una visione completa della musica. Poi è il ragazzo che sceglie in cosa specializzarsi». 
 

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Data di aggiornamento: 24 Febbraio 2021
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