22 Giugno 2021

Amir Issaa, italiano a ritmo di rap

«Io sono la testimonianza che la passione per questo genere musicale fa crescere l’interesse per altre forme di cultura, come la letteratura».
Amir Issaa

© Luca Giorietto

Amir Issaa non è un accademico eppure si è laureato all’università più difficile, quella della vita. È un musicista, e tutte le più importanti scuole e università del mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, se lo contendono a suon di inviti affinché vada a tenere lezioni di lingua e cultura italiana. Ovviamente a ritmo di rap. Sembra l’incipit della trama di un musical. E forse potrebbe anche diventarlo. Eppure Amir ti disarma con la sua spontaneità e immediatezza. È un funambolo delle parole, un virtuoso del lessico. Coglie la profondità della vita con la leggerezza di un poeta. Perciò «spacca», come si dice in gergo. 

Nato a Roma, figlio di un immigrato egiziano e di una donna italiana, ben presto si è avvicinato all’hip hop, e il rap è diventato il suo salvagente rispetto a una situazione familiare molto delicata. Per questo si è ritrovato naturalmente predisposto ad aiutare i ragazzi in difficoltà. Oltre alla musica, che lo ha sempre visto come un prolifico autore di album e di singoli di successo, si è dedicato a varie realtà attive nel sociale come Save The Children, Centro Astalli, Comunità di Sant’Egidio con la quale ha realizzato un laboratorio musicale presso il carcere minorile di Casal del Marmo. Con l’Unar si è impegnato contro il razzismo. Da sempre si batte per il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati. Nel 2017 è uscito il suo romanzo autobiografico dal titolo Vivo per questo (Chiarelettere).

Msa. Amir, qual è stato il momento più brutto della tua infanzia e adolescenza a Torpignattara? E quello che invece ha fatto scattare in te la molla che ti ha portato a diventare un musicista e un rapper di successo?
Issaa. Sicuramente la retata che c’è stata a casa mia quando hanno portato via mia mamma e mio papà, mi ha segnato molto. Avevo già vissuto in passato dei momenti simili, ma l’episodio successo a Torpignattara quando avevo 17 anni, che ho raccontato nella canzone 5 del mattino è stato quello che mi è rimasto più impresso. Mi piaceva la musica, ma non avevo mai pensato che potessi farla, e la prima volta che ho sentito una canzone rap, dentro di me è scattato qualcosa che mi ha fatto pensare: «Ok, questo posso farlo» perché non c’è bisogno di saper suonare uno strumento musicale o di pagare per fare un corso. Avevo capito che per fare il rap bisognava avere qualcosa da dire, e io avevo tanto da raccontare.

Come nascono le tue canzoni? 
Non seguo un metodo specifico, ma mi lascio guidare dall’ispirazione che arriva sicuramente, per la maggior parte, dalla mia vita e da quello che mi succede intorno. Ho sempre avuto un’attenzione particolare per il contenuto delle mie canzoni, e per farlo mi sono dovuto nutrire di esperienze, viaggi, incontri, persone.

Internet e i social media permettono a molti più ragazzi e giovani di una generazione fa, di esprimersi con parole, immagini, musica, video. In questo abbiamo conquistato più democrazia e libertà. Però non credi che si sia un po’ perso il piacere di vedersi, parlarsi, abbracciarsi, perché le relazioni, anche prima del Covid, si sono virtualizzate. Questo non rischia di compromettere proprio la sfera affettiva dei giovani? 
Non sono d’accordo. Se io oggi avessi 16 anni, probabilmente mi comporterei esattamente come fanno questi ragazzi, ovvero sfrutterei queste piattaforme per fare nuove conoscenze e per approfondire i miei interessi. Avendo la fortuna di essere padre di un ragazzo che oggi ha 20 anni, ho seguito la sua crescita, e mi sento di dire che i giovani non fanno nulla di diverso da quello che faremmo o avremmo fatto noi: l’uso dei social è uno strumento che sicuramente aiuta a interagire con un numero molto alto di persone in maniera più immediata, ma viene usato anche come facilitatore di un incontro dal vivo. Lo dico perché non mi piace generalizzare sui comportamenti dei ragazzi, cerco sempre di sfatare o non alimentare pregiudizi a livello generazionale. Ciascuno usa e impara a sfruttare i mezzi con cui è cresciuto, e non è detto che sia per forza meglio o peggio di altre epoche: è semplicemente diverso.

Le parole sono macigni, sono armi, ma possono essere anche strumenti di pace e di tolleranza, di amicizia e di dialogo. Oggi che responsabilità ha la musica e chi fa musica?
Se un artista sa che il suo pubblico è composto da adolescenti, dovrebbe avere una responsabilità, e scegliere con cura le parole che usa. Al tempo stesso, però, anche i genitori dei ragazzi hanno il compito di educare i loro figli all’ascolto, filtrando e distinguendo molto bene quello che è l’intrattenimento dall’emulazione di ciò che si ascolta. La musica rap, ad esempio, è sempre al centro del mirino quando si toccano questi argomenti, ma la responsabilità della diffusione di messaggi sbagliati non è da meno da parte anche di altri media, come il cinema o la tv.

Dopo la pubblicazione del tuo libro autobiografico Vivo per questo, hai fatto un tour in scuole e università americane, da Est a Ovest. In che modo il rap fa conoscere la lingua italiana e l’Italia di oggi?
Quando porto il rap nelle scuole e nelle università americane, lo uso su due livelli: da un lato, questo linguaggio musicale di così semplice realizzazione, come la costruzione di un testo in rima, è perfetto per insegnare la nostra lingua a chi non la conosce, che in questo modo si può allenare divertendosi; dall’altro, però, il rap riflette molto bene la società contemporanea e ne registra continuamente la sua evoluzione. Ciò è perfetto per sfatare molti falsi miti o vecchi pregiudizi sull’Italia di oggi, che per molte persone all’estero è ancora vista come la patria della triade «pasta-pizza-e-mandolino». A questo vecchio immaginario appartiene ancora, purtroppo, l’idea che un italiano sia solo una persona di pelle chiara e con un nome italiano: la società ci mostra che ormai da parecchi anni la situazione nel nostro Paese non è più questa, e gli studenti statunitensi che studiano lingua e cultura italiana a livello accademico devono conoscerla. Per questo motivo, i docenti americani mi coinvolgono.

Quali necessità o disagi hai sentito esprimere da parte dei giovani?
In generale, mi sembra che tutti i giovani che ho incontrato, che siano americani o europei, sentano di aver ricevuto in eredità un mondo che ha molte grandi problematiche da risolvere: mi riferisco all’emergenza climatica, alla persistenza di troppi pregiudizi di vario tipo nella società o alla precarietà lavorativa. Dall’Italia agli Stati Uniti, i giovani hanno voglia di riscrivere il loro futuro.

Ci sono vicende di giovani che hai incontrato in questi tour, che ti hanno colpito?
Quando sono stato alla San Diego State University, nel 2018, ho conosciuto degli studenti di origine messicana che vivevano a Tijuana, appena dopo il confine americano, che ogni giorno facevano i pendolari per potersi costruire un futuro migliore grazie allo studio in una scuola statunitense. Dietro le loro storie c’erano anni di sacrifici e speranze delle loro famiglie che vedevano in loro una possibilità di riscatto.

Come valuti ciò che sta facendo Greta Thunberg? 
Greta Thunberg è l’esempio del fatto che la voglia di cambiamento tra i giovani c’è, e che i ragazzi sono molto ben disposti a seguire chi, ancora meglio se si tratta di un coetaneo, dà l’esempio in questo senso. Greta è un ottimo esempio di come si possa riuscire a diventare un leader partendo dal basso. Non ho ancora mai avuto l’occasione di usare il rap per affrontare temi come l’ecologia e il rispetto dell’ambiente, ma non lo escludo: il rap si presta a diffondere qualsiasi tipo di messaggio.

 

Il nuovo libro di Amir Issaa

Educazione rap (Add editore) attraverso il racconto delle esperienze di Amir Issaa (www.amirissaa.com) fa conoscere il rap e il suo potenziale come linguaggio espressivo a chi non lo ha approfondito. Il libro è inserito nella collana «Young Adult». È destinato a studenti tra gli 11 e i 18 anni, e ai docenti. Ne pubblichiamo un estratto.

Al liceo Socrate per una lezione di cultura Hip Hop

Questo rap mi ha dato le ripetizioni 
Dopo scuola quando stavo a casa senza genitori
Allo specchio imitavo Jay z e Nas
Wu Tang dentro il walkman in giro 
per la città
Poi ho capito che avevo tanto da dire 
Carta e penna e in tasca appena duemila lire
Ma mi sentivo il re dentro il mio isolato e mi ha aiutato
A sentirmi meno isolato. 
Amir Issaa, Il rap mette le ali

«Al liceo Socrate per una lezione di cultura Hip Hop», questo dice il mio cellulare stamattina. Sono tredici anni che vado nelle scuole per promuovere il rap e per quante ne ho visitate, ormai ho perso il conto. Ma oggi succede qualcosa di speciale, il Socrate è la scuola di mio figlio. Niccolò è nato quando avevo ventun anni, in un momento in cui la mia carriera iniziava a decollare, e le ultime esperienze scolastiche da studente erano un ricordo ormai sbiadito nella memoria. Per uno cresciuto con il mito dei rapper americani, che lasciano la scuola da piccoli per spacciare e poi raggiungono il successo raccontando a tutti la vita che hanno fatto da soldati del ghetto, tra sparatorie, belle donne e macchine di lusso, entrare in un liceo per insegnare era qualcosa di inimmaginabile. Se mi avessero detto che a quarantun anni il destino mi avrebbe riportato a scuola, e stavolta non dietro al banco, non ci avrei creduto, ma oggi essere una via di mezzo tra un rapper e un docente è per me un motivo di orgoglio. Io vengo da Torpignattara, che nell’immaginario comune è considerata come periferia, anche se in realtà è un quartiere popolare tipo San Lorenzo o il Pigneto, ma la zona in cui inizia il mio viaggio con i laboratori di rap è San Basilio, che è molto più lontana dal centro di Roma, ed è nota come una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa. San Basilio è stato un punto di partenza importante, dal quale si è sviluppata un’altra storia: tre volte a settimana, nella fascia pomeridiana del dopo scuola, incontravo ragazzi che avevano vite complicate, storie difficili. Venivamo ospitati in uno spazio solitamente utilizzato per le riunioni di condominio dei «palazzoni», ed è lì che ho iniziato a fare i conti con la mia capacità di trasmettere l’esperienza. Niente da insegnare nel senso classico del termine, ma parlare delle cose che conosco e di cui i ragazzi vogliono sapere, insegnare le cose che so, a modo mio, insomma. 
Il Socrate è alla Garbatella, un quartiere di Roma che mi appartiene in modo particolare. Dopo il primo arresto di mio padre, e lo sfratto dalla casa in cui vivevamo con mia mamma e mia sorella in zona Stazione Termini, siamo stati ospiti per qualche anno da mia zia, in via Ignazio Persico. Un condominio popolare in cui vivevano tante famiglie, quindi tanti bambini con cui fare amicizia e giocare in cortile o al parco: quando fai le elementari è tutto quello che ti serve. Quella casa gialla dove ho passato un periodo della mia infanzia è vicina pure al Socrate, un liceo classico e scientifico che fa dell’accoglienza e della lotta alla discriminazione la sua forza, che organizza «seminari socratici di letteratura greca e latina», lezioni sull’eredità di Sciascia, che parla di scienza, bioetica e poesia. E oggi tocca a me. 

 

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Data di aggiornamento: 22 Giugno 2021
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