Gli orfani di suor Jeanne Pascale
Suor Jeanne Pascale Guilavogui ha due occhi svegli e un sorriso gentile. Basta parlare qualche minuto con lei per capire che il mito della «suorina» africana dimessa e appiattita sulla carità del giorno per giorno è un pregiudizio. Suor Jeanne è un concentrato di forza e dolcezza, di progettualità e resilienza. Viene dalla Repubblica di Guinea, nell’Africa Occidentale e fa parte delle Serve di Maria Vergine e Madre, una congregazione locale che ha come carisma la salvaguardia delle mamme in gravidanza e dei loro bambini.
Non è un caso. Nella diocesi di N’Zérékoré, a Sud del Paese, dove le 42 suore della congregazione operano in 10 comunità, la mortalità materno-infantile è altissima e gli orfani si contano a decine. «La nostra diocesi è grande come la Toscana – afferma suor Jeanne in un buon italiano, tradendo la conoscenza del nostro Paese –, non ha strade, servizi sanitari, scuole, acqua potabile. La comunità di cui faccio parte è in un villaggio isolato dell’interno, a 1.200 km dalla capitale Conakry. Il problema più grande è la fame. Siamo così isolati e poveri che nel 2014 e 2015 l’epidemia di Ebola ha devastato la nostra gente».
Un dono per la gente
Jeanne Pascale ha studiato in Italia: «Un’esperienza bellissima. Eppure, mi sentivo fuori posto: qui mangiavo in abbondanza, in patria le consorelle riuscivano a stento a dare un pasto al giorno agli orfani. Spesso per non sentire i crampi allo stomaco, andavano in chiesa a pregare». Una volta in Europa, Jeanne avrebbe potuto scegliere un’altra strada e invece chiede di tornare al villaggio, all’isolamento e alla fame. «Avevo avuto un’opportunità e dovevo spenderla per la mia gente. Così ho iniziato a cercare qualcuno che potesse aiutarmi a costruire dei pozzi e limitare da subito la causa di molte malattie e morti. E la provvidenza mi ha portato fino a voi».
Grazie a Caritas Antoniana e ai lettori, suor Jeanne Pascale è riuscita nel suo intento: «Non riesco neppure a descrivervi la felicità della gente!» afferma entusiasta. Ma il sorriso si smorza iniziando a parlare degli orfani. «Quando una mamma muore di parto – racconta – portano i piccoli da noi. Li curiamo fino ai 4 anni, poi dobbiamo lasciarli andare, non abbiamo cibo per tutti. E allora cerchiamo una famiglia adottiva, quando possibile il padre. Purtroppo molti di loro muoiono lo stesso, perché la gente crede che questi orfani siano gli assassini della madre».
Soli a 4 anni
Rimango di sale. Bambini di 4 anni abbandonati a se stessi. La suora legge il mio sconcerto. Siamo due donne, due mamme, ognuna a suo modo, di fronte a un baratro più grande di noi. Nel silenzio una lacrima le riga la guancia. La sua gioia si è tramutata in un dolore profondo, con una naturalezza che è ignota a noi occidentali: «Piangiamo quando arrivano – aggiunge piano, senza giudicare – e piangiamo quando se ne vanno. La nostra sola consolazione è la speranza che il domani sarà migliore. Altrimenti come potremmo sopravvivere?».
Suor Jeanne Pascale ha tanti sogni: una scuola, un convitto per far crescere al sicuro i bambini, un ambulatorio per il parto. Nella sua testa si va formando l’embrione di un sistema virtuoso per strappare i bambini alla morte. «Oggi è così, domani il Signore ci aiuterà» ripete.
Seguire la propria montagna
In Italia c’è paura dei tanti immigrati che fuggono dalla povertà, dalle guerre e dalla fame. Butto là la domanda e lei non si sottrae: «Vicino alla missione c’è una grande montagna – inizia il racconto come fosse una fiaba africana –, da cui si ricava la bauxite, che serve per i telefonini. Ogni giorno tanti vagoni della nostra montagna viaggiano, attraverso l’unica via ferrata esistente, fino al mare e poi se ne vanno per il mondo. In questo spazio non c’è un solo posto di lavoro per chi vive qui. E io dico che è normale che la mia gente segua la sua montagna, perché Dio ha fatto la terra per tutti».