Grande Guerra. I fucilati dimenticati
Furono oltre millecento i militari italiani caduti «per mano amica». L’eufemismo non basta a cancellare la tragicità della vicenda di soldati condannati, spesso dopo processi sommari, e fucilati durante il primo conflitto mondiale. Condanne capitali e decimazioni – eseguite dai militari per punire diserzioni o ristabilire la disciplina – di persone che sono state anche dimenticate, perché non ritenute degne del ricordo. Ma oggi, grazie alla tenacia di storici valenti, allo sforzo di persone determinate, a momenti di riflessione comune – come il convegno organizzato a Rovereto dal Museo storico italiano della guerra lo scorso maggio –, a recenti iniziative politiche, finalmente qualcosa è cambiato: una proposta di legge sulla riabilitazione dei fucilati (n. 2741 Scanu-Zanin e abbinata n. 3035) è stata approvata alla Camera dei Deputati a fine maggio (e ora è in attesa dell’esame del Senato). Il disegno di legge prevede che vengano riprese in mano le 750 sentenze di condanna, che vengano riabilitati i militari italiani restituendo loro onore e dignità di vittime della guerra, che si realizzi una serie di iniziative per ricordare questi caduti, anche con il coinvolgimento delle scuole superiori del Paese. Si torna dunque a parlare dei fucilati della Prima guerra mondiale, a esaminare queste vite spezzate, caso per caso, in una sorta di giubileo civile. Si tratta infatti di rileggere la storia e di «chiedere perdono per gli errori commessi». «Un Paese dalle solide radici come l’Italia – ha scritto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio al convegno di Rovereto – non deve avere il timore di guardare con coraggio anche alle pagine più buie e controverse della propria storia recente. Ricordare e capire non vuol dire necessariamente assolvere o giustificare. La memoria di quei mille e più italiani uccisi dai plotoni di esecuzione interpella oggi la nostra coscienza di uomini liberi e il nostro senso di umanità».
La storia rimossa Un capitolo di storia, quello dei fucilati, in ombra per tanti anni, volutamente dimenticato, che va invece incluso a pieno titolo nei riesami di questo centenario della Prima guerra mondiale, che fu un’«inutile strage» come disse papa Benedetto XV, un’immane tragedia collettiva fatta di offensive e controffensive sfiancanti, battaglie, enormi perdite di vite umane...
Per inquadrare il capitolo delle fucilazioni di soldati italiani negli anni dal 1915 al 1918 occorre innanzitutto rammentare le numerose circolari del generale Luigi Cadorna. Scrivono gli storici Mario Isnenghi e Giorgio Rochat ne La grande guerra: «La lettura delle numerose circolari di Cadorna sulla disciplina è mortificante, così come l’elenco dei provvedimenti che prescriveva in termini ultimativi: azione immediata ed esemplare di tribunali regolari e straordinari, decimazioni di reparti, abbattimento di vili per mano degli ufficiali, insomma fucilazioni e galera. Da rilevare la sua convinzione assoluta che fosse il disfattismo del Paese a inquinare le truppe: un modo per evitare di mettere in discussione le condizioni reali dei combattenti e la sua azione di comando. Né si può dimenticare il disinteresse di Cadorna per la vita dei soldati (vitto, alloggiamenti, turni di riposo, licenze)». Le circolari del Comando supremo del 1915 e del 1916 recavano le testuali parole: «Il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi». E ancora di più: «Non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli, e allorché accertamento identità personali dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto e il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati e di punirli con la pena di morte».
Le condanne a morte comminate dai tribunali militari (su circa 250 mila processi) sarebbero più di 4 mila, di cui 750 eseguite effettivamente (e altre 50 dopo il conflitto); a esse andrebbero ad aggiungersi circa 350 decimazioni e fucilazioni sul campo. Nel corso della Prima guerra mondiale furono mobilitati quasi 6 milioni di italiani su una popolazione di 36 milioni. La reale renitenza (rifiuto della guerra) sarebbe da stimare attorno al 2 per cento. I militari italiani caduti furono oltre 650 mila. I militari morti di tutti i Paesi belligeranti: 10 milioni.
Nomi sepolti negli archivi Tra i pionieri a occuparsi della giustizia militare in Italia e delle fucilazioni nella grande guerra ci sono Marco Pluviano e Irene Guerrini, autori del volume Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004. «Pensavamo – spiega Irene Guerrini, storica e bibliotecaria dell’Università di Genova – che le fucilazioni senza processo fossero una peculiarità tutta italiana, ma abbiamo appreso dagli studi di Oswald Überegger dell’università di Bolzano che questa pratica aberrante è stata utilizzata ampiamente anche nell’esercito austroungarico. La peculiarità italiana è che la giustizia militare ha colpito prevalentemente i combattenti italiani, mentre in altri Paesi ha riguardato i civili. Stupisce questo accanimento verso combattenti italiani che hanno dato prova di resistere con coraggio per tutti i quarantuno mesi, in condizioni terribili. Si è trattato di un utilizzo della giustizia militare come principale strumento per costringere i soldati a combattere. In realtà i soldati combattono per mille motivi e non solo per “paura del plotone di esecuzione”.
La prima cosa che si potrebbe pensare (e questa è stata la lettura comune fino a circa un anno e mezzo fa) è che ci siano stati un migliaio di “codardi”, che non volevano combattere e sono stati fucilati. Se però poi noi andiamo a esaminare caso per caso, scopriamo la marea di ingiustizie che sono state perpetrate in nome della giustizia militare. Soldati che avevano avuto un atto di cedimento, anche se con ottimi precedenti, sono stati fucilati senza pietà.
In prossimità del centenario, anche grazie alla mobilitazione della società civile, del mondo politico, della stampa, si è iniziato a parlare di questa pagina poco conosciuta della Prima guerra mondiale. È necessario studiare questi casi, perché ci fanno capire un ulteriore profilo di sofferenza che hanno avuto i nostri soldati. Analizzando come è stata applicata la giustizia militare, abbiamo ulteriori strumenti di interpretazione su come la guerra è stata combattuta, su come il comando supremo ha impostato lo svolgimento delle operazioni. Dalla “piccola storia” riusciamo a capire di più sulla guerra mondiale».
Nel giugno del 1916 c’è lo sfondamento austriaco (Strafexpedition, spedizione punitiva) sull’Altopiano di Asiago, che viene contenuto a stento proprio quando gli austriaci stanno per arrivare in pianura (con 76 mila caduti italiani). Vengono emesse le circolari durissime già menzionate che invitano a una severità assoluta. «In questo momento – spiega ancora Guerrini – ci sono tantissime fucilazioni, decimazioni, esecuzioni sommarie su semplici soldati. Non vengono colpiti, come sempre, gli ufficiali che sono in genere molto giovani, a volte al primo comando, e con una formazione teorica e tecnica assai ridotta. Di conseguenza non sempre riescono a gestire gli uomini e le situazioni di crisi nel modo dovuto. Proprio in un punto dell’Altipiano, il 30 maggio un gruppo di soldati e ufficiali dell’89° Battaglione della Brigata Salerno rimane intrappolato nella terra di nessuno: 48 ore senza viveri, senza bere, ci sono dei feriti gravissimi. A un certo punto – continua ancora Guerrini – gli ufficiali di questo nutrito gruppo dicono: “Arrendiamoci”. Aspettano che ci sia un contrattacco italiano ma questo non avviene, iniziano ad arrendersi un po’ alla volta tra il 1˚ e il 2 luglio. Dalle trincee italiane quindi decidono, per colpire questo “comportamento ignominioso” di bombardare con i cannoni e con le mitragliatrici e ne uccidono tantissimi per evitare l’infamia di questa resa. Sempre dalle trincee italiane alcuni militari esortano i compagni intrappolati ad arrendersi. Non riuscendo a individuare i soldati colpevoli di aver dato tale consiglio, i comandi ordinano la fucilazione di due militari per ognuna delle quattro compagnie che compongono l’89° Battaglione. Così otto uomini sono messi al muro senza processo la sera del 2 luglio. Questo, secondo noi, è un segno che gli Stati Maggiori per coprire le loro colpe decidono di scaricare la violenza sui soldati incolpevoli».
Ci sono tantissimi casi analoghi a questo, insiste Guerrini: «Per esempio quello della Brigata Ravenna nel marzo del 1917. I soldati vengono portati in seconda linea, sul Carso, per un turno di riposo. Dopo due giorni li vogliono rimandare avanti, loro protestano, sparano qualche colpo in aria, il loro generale li convince a partire. Il giorno dopo arriva il generale di divisione, non è soddisfatto e ordina una decimazione: vengono fucilati otto soldati, poi ne vengono uccisi altri cinque quando la protesta era assolutamente rientrata». C’è poi il famoso caso della Brigata Catanzaro (cui la città calabrese ha già dedicato una via), protagonista di un atto di rivolta nel 1917.
Tutte queste fucilazioni ed esecuzioni sommarie vengono per così dire rimosse per lungo tempo. Spiega ancora Guerrini: «Già nel 1919 il generale Donato Antonio Tommasi della Commissione di inchiesta su Caporetto concluse che ci furono dei gravi abusi». Durante il fascismo saranno ricordati solo l’aspetto della gloria e del mito. Le ricerche storiche si fermarono fino al 1968 quando venne pubblicato uno degli studi pionieristici in materia: Plotone d’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, di Enzo Forcella e Alberto Monticone (Laterza).
Oggi finalmente c’è una nuova sensibilità. Ma la ricerca storica su questo argomento è molto faticosa. I documenti sono a Roma, ci sono 300 mila documenti processuali, chilometri e chilometri di scaffali, quindi un’indagine presuppone un notevole esborso di forze e di denaro».
Alla questione delle fucilazioni sommarie Irene Guerrini arrivò quasi per caso, mentre stava cercando nell’archivio del Museo del risorgimento di Milano il materiale per la sua tesi di laurea. Racconta: «Insieme con Marco Pluviano abbiamo trovato una busta gialla spessa, sigillata con cera lacca con la scritta: “Da aprirsi vent’anni dopo la morte del donatore”. Il donatore era l’onorevole Gasparotto, che fu anche ministro della Guerra negli anni precedenti l’avvento del fascismo, e per questo entrò in possesso di una copia di questo memoriale molto riservato. Essendo trascorsi più di vent’anni, abbiamo aperto la busta e trovato il Memoriale sulle fucilazioni sommarie del 1919 (conservato tuttora nell’archivio di quel Museo). Nel Memoriale Tommasi erano esposti i casi di 119 persone, poi io e Marco Pluviano, attraverso le nostre ricerche d’archivio, siamo arrivati a trovare 300 nomi di fucilati senza processo».
La decimazione di Cercivento Davanti al muretto del cimitero di Cercivento (UD), un paesino di circa seicento anime della Carnia, il 1º luglio 1916 quattro alpini della 109a Compagnia del Battaglione Monte Arvenis – Ortis Gaetano Silvio di Naunina, Matiz Basilio di Timau, Coradazzi Giovanni Battista da Forni di Sopra, Massaro Angelo Primo da Maniago – furono fucilati perché si opposero a un ordine del comandante. La Compagnia si sarebbe rifiutata di fare un ennesimo attacco suicida sul Monte Cellon, a 2 mila metri di altezza, con valanghe e neve. Ottanta alpini vennero accusati di rivolta; quattro di loro (che non erano nemmeno presenti al momento dell’ammutinamento) vennero condannati alla pena capitale. Li ricorda un cippo commemorativo a Cercivento.
Luca Boschetti, sindaco di questo piccolo paese della Carnia, ci ha detto: «Sono tutti friulani, tre carnici e uno della provincia di Pordenone. Il comune di Cercivento con la locale sezione degli alpini, già nel giugno 1996 ha fatto erigere un cippo in memoria di questi quattro alpini. Per noi sono gente di Cercivento. Non sono traditori, non sono scomparsi dalla memoria della gente. Sono quattro ragazzi che hanno rifiutato un ordine, ma tentando – per quanto ne so – di far capire al capitano che aspettando la sera avrebbero avuto più possibilità di guadagnare la cima. Erano ragazzi del posto, sapevano benissimo di cosa parlavano, al contrario del capitano. Per noi – conclude Luca Boschetti – questi quattro sono riabilitati in tutti i sensi. Non serve che la giustizia ci dica di più».
E così in Carnia, tra le austere montagne ci sono anche questi tristi primati: a Paluzza c’è l’unica caserma italiana dedicata a una donna, la portatrice carnica Maria Plozner Mentil, e a Cercivento c’è l’unico cippo, di pietra del monte Cellon, dedicato a questi quattro giovani alpini fucilati (e non dimenticati dalla gente).
«Credo che dobbiamo leggere il valore di “segno” che quelle morti ancora oggi rivestono, assieme a tutte le vittime della guerra – sono le parole conclusive del messaggio dell’Ordinario militare per l’Italia, monsignor Santo Marcianò, al convegno di Rovereto sui fucilati –. Sono il segno del fallimento di ogni guerra, della sua inutilità; del fatto che tutti sono vittime della guerra. Vittime di decisioni ingiuste, vittime di un frainteso senso di giustizia, vittime di quella paura che è il comprensibile frutto della fragilità umana e del terrore che la guerra porta con sé. Vittime, infine, di una disumanità con la quale, presto o tardi, bisogna fare i conti a livello di decisioni politiche e a livello personale. Se dunque la guerra è “sconfitta dell’umano”, la pace è, potremmo affermare, “maturazione dell’umano”; una maturazione che ci aiuta a rivisitare gli eventi non solo con il metro delle leggi di guerra, delle regole o dell’opportunità, ma esattamente con il metro dell’umanità». PAOLO RUMIZUn grande concerto stonato Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, è autore di molti libri tra cui Il Ciclope (Feltrinelli) e, sulla Prima guerra mondiale, Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli). «Dal convegno di Rovereto – ha detto Rumiz – è uscita un’assunzione di grande responsabilità e cioè la necessità di affrontare questa memoria senza veli, senza paura. Siamo uno Stato, una Nazione: non possiamo avere paura di questo “pezzo di memoria”. Contemporaneamente non possiamo accettare che il ritorno di questa memoria sia giocato in senso antinazionale, in senso anti-italiano».
Msa. Manca su questo tema la voce della società civile?Rumiz. Questo è un grande problema. Siamo passati direttamente da una memoria retorica, in cui certe cose erano indiscutibili, cioè non potevano essere affrontate, a una amnesia, al nulla. Tant’è vero che i grandi monumenti del ricordo come i sacrari di Oslavia, Redipuglia, gli ossari del Pasubio, del Tonale, nel momento stesso in cui hanno smesso di essere usati come «pilastri della Nazione», nel momento in cui hanno perso tale funzione (completamente diversa da quella di ricordare dei caduti) sono finiti in decadenza. Uno come me, che non è mai andato volentieri a Redipuglia, oggi si trova nella necessità di difendere Redipuglia da una amnesia generalizzata.
La riabilitazione di questi fucilati, il recupero della memoria, dovrebbero far intuire l’assurdità della guerra? Certo, è per questo che se ne parla. Però non dobbiamo credere che i fucilati esistessero solo nell’esercito italiano, che le barbarie fossero solo nostre. Noi oggi siamo fortemente autocritici, autodenigratori. Il discorso dei fucilati, dell’indifferenza verso la vita dei soldati era assolutamente generalizzato in tutti gli eserciti belligeranti. Forse soltanto l’esercito tedesco aveva un rapporto tra ufficiali e soldati molto più rispettoso e difatti ha avuto molte meno fucilazioni. Questa ricerca storica ha valore nella misura in cui riesce a inserirsi in un discorso europeo più vasto. Non c’è stata nessuna voce che, a livello istituzionale, ha cercato di guardare, di ricordare questo evento come una grande tragedia collettiva. I francesi, gli inglesi hanno fatto le loro sfilate, poi anche gli italiani; abbiamo assistito al silenzio dei tedeschi, il silenzio delle nazioni sconfitte. Abbiamo avuto, cioè, un grande concerto stonato.
LA VICENDA DELL’ALPINO ORTISCent’anni per avere giustizia
Mario Flora, 72 anni, carnico, ex militare della Guardia di Finanza, da quasi trent’anni si batte con tenacia per la riabilitazione postuma dei fucilati di Cercivento. Flora è pronipote del caporale maggiore Gaetano Silvio Ortis, soldato contadino, già distintosi per meriti militari nella guerra di Libia (1911-12) e fucilato il 1º luglio 1916 a Cercivento.
Msa. Cosa significa per lei questa riabilitazione?Flora. Ho aderito subito all’invito che mi è stato fatto per l’audizione in Commissione Difesa a Roma. Ora mi aspetto da parte del Senato un celere esame della legge approvata alla Camera. Sono contentissimo di aver dedicato trent’anni circa per la riabilitazione dei quattro alpini fucilati. L’emozione è tanta, perché ho portato a temine il compito che la mia bisnonna ci aveva affidato, e cioè ottenere la riabilitazione e la restituzione dell’onore al figlio. Lei fu informata in sogno quando volevano traslare i resti di Gaetano Silvio al Tempio ossario a Udine da Cercivento, dove nessuna foto né scritta poteva ricordare i quattro ragazzi, perché l’onta del disonore pesava su di loro e su tutti i loro parenti come un macigno. Essi non esistevano più, per nessuno, come se non fossero mai vissuti.
Quale convinzione l’ha sorretta in tutti questi anni? Onore, verità e giustizia. Questi sono i cardini fondamentali da cui io parto. Ho cercato in tutti i modi di dimostrare la verità. Sono un cristiano e penso che loro non siano morti, ma dormano. Infatti, fintanto che c’è qualcuno che li ricorda, essi sono vivi. Benedetto XV disse: «Questa guerra è voluta dai ricchi e combattuta dai poveri». Per me i quattro ragazzi hanno adempiuto al loro dovere. Mio zio, come Basilio Matiz. Quest’ultimo era emigrante, tornato dall’Austria pur avendo famiglia, per combattere per l’Italia, conosceva come le sue tasche quelle montagne.
Quando ai quattro alpini venne comandato l’attacco che successe? Loro proposero di modificare il progettato piano d’attacco alla Cima orientale del Cellon per avere più possibilità di guadagnare la stessa. Suggerirono un’altra via, a sinistra del Valico di Montecroce Carnico per sorprendere gli austriaci. Ma il capitano Ciofi, napoletano, si impose. Mio zio e gli altri furono fucilati, presumendo che «avessero concertato la rivolta» (pur non essendo nella baracca incriminata). Noi carnici eravamo considerati «austriacanti». In seguito, mettendo in pratica proprio il «consiglio» dei fucilati, fu conquistata la vetta orientale.
Il prete don Luigi Zuliani (1876-1953) si offrì di morire al loro posto? Tutta la storia è raccontata nel libro di don Antonio Bellina, Siôr Santul (1983, La Nuova Base). Don Luigi si offrì di farsi fucilare al posto dei quattro ragazzi. Fu preso dai militari e portato via perché cercava di impedire la fucilazione. In seguito a questo fatto, quattro innocenti uccisi per niente, fu sconvolto e divenne balbuziente. Per me la vita umana è al di sopra di tutto. Siamo tutti figli di Dio, siamo esseri umani e non pietre da spostare di qua e di là.
Proprio quest’anno ricorrono i cento anni dai fatti. In Italia ci sono voluti cento anni per avere giustizia (1916-2016). È mai possibile? Io credo a una sola giustizia: la giustizia divina.
I LIBRI
Mario Isnenghi, Giorgio Rochat,La grande guerra Il Mulino, 2014 Enzo Forcella, Alberto Monticone,Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale Laterza, 1968, 2014 Marco Pluviano, Irene Guerrini,Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale Gaspari, Udine 2004 Paolo Rumiz,Come cavalli che dormono in piedi Feltrinelli, 2014 Maria Rosa Calderoni,La fucilazione dell’alpino Ortis Mursia, 1999 Antonio Bellina,Siôr Santul La Nuova Base, 1983