Ho visto anche zingari felici…
Questa volta non vi racconto di una foto, e chiedo più spazio. Vi voglio dire di un poeta, di un insegnante di liceo, di un musicista che ha attraversato i nostri anni di ragazzi per arrivare, fedele a sé stesso, fino a oggi. Fino a ieri, perché un mese fa se ne è andato. Per questo, settimane dopo, ho cercato su uno scaffale della mia libreria i vecchi long-playing. Ho rinviato a lungo questa ricerca, non volevo piangere.
Non ho pianto, sono stato felice: non speravo che tutti i suoi dischi fossero lì, non ricordavo di averne così tanti. Disoccupate le strade dai sogni, con la sua faccia da clown diventata finalmente irriverente. Un uomo in crisi, con la sua fotografia in una stanza-prigione, foto da depressione, e lui seduto Aspettando Godot. E poi, eccole, cercavo loro: le bandiere di carta al vento di Ho visto anche degli zingari felici. «Forse la più grande canzone della storia della musica italiana», ha scritto Luca Sofri.
Claudio Lolli e i musicisti ribelli che collaborarono a questo disco ebbero la forza e la sfrontatezza di imporre all’Emi, la casa discografica, un prezzo contenuto: tremila e cinquecento lire invece di cinquemila. Un atto politico, di amore e gentilezza: era la primavera del 1976 e i sogni dei ragazzi erano ancora una meraviglia. Ben presto sarebbero arrivati i tempi cupi dell’Italia, Claudio e i suoi amici avrebbero avuto l’intelligenza e la forza di coglierne e cantare anche la fine.
È vero che non vogliamo cambiare/il nostro inverno in estate,/è vero che i poeti ci fanno paura…
Da qualche parte Claudio ha raccontato che i ragazzi che si ritrovavano in piazza Maggiore, cuore di Bologna, giocavano a frisby. E, ogni tanto, il disco «andava lungo» e allora un passante, qualunque cosa stesse facendo, faceva un balzo, lo raccoglieva e lo rilanciava, un po’ sbilenco, verso i giocatori. Un gesto piccolo, ma era «una complicità non compromessa ed una promessa di futuro». Adesso, sì, che piango per davvero. E allora, adesso che l’inverno sta tornando, cambiamolo davvero in estate. «Perché i poeti – quelli che ci fanno paura – aprono sempre la loro finestra». E smettiamola di dire che è «una finestra sbagliata». In fondo ci sono degli «zingari felici» che, in quella piazza correvano, e corrono ancora, dietro a «far l’amore e rotolarsi per terra».
Immagino Claudio che ruba il titolo della sua canzone a uno sconosciuto film jugoslavo. Che legge pagine dello scrittore tedesco Peter Weiss, parole indignate per la ferocia coloniale del fascismo portoghese, e le riprende, le cambia, le usa: Siamo noi a far ricca la terra/noi che sopportiamo/la malattia del sonno e la malaria/noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais/su tutto l'altopiano./Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,/le nostre braccia arrivano/ogni giorno più lontane./Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,/con che poi tutti gli altri/restano favoriti.
E allora è tempo di far bella la luna/con la nostra vita/coperta di stracci e di sassi di vetro./ Quella vita che gli altri ci respingono indietro/come un insulto,/come un ragno nella stanza./Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera,/riprendiamoci la vita,/la terra, la luna e l'abbondanza.
Mi smarrisco nel sax arioso e immenso di Danilo Tomasetta. E poi scatto una foto ai dischi, infine cerco cavi consumati e provo a rimettere in funzione il «piatto» del giradischi. Da quanto tempo non lo faccio. Ecco, la voce, così piena di ragni di granchi di rane e altre cose un po’ strane, la puntina graffia con cortesia. Qualche mese prima di morire, lo scorso anno, Claudio, con capelli lunghi e mezza testa calva, aveva vinto il Premio Tenco con un disco meraviglioso, Il Grande Freddo. Siamo davvero noi a far bella luna, e siamo gli stessi di allora, ma completamente diversi. Le ginestre, dice ancora Claudio, profumano comunque. In qualsiasi deserto.