I piedi scalzi delle Olimpiadi
Olimpiadi in Brasile. La prima volta in un paese sudamericano. Sedici notti a inseguire sport che ben pochi di noi solitamente guardano o praticano: questa è la meraviglia delle Olimpiadi, ci appassioniamo per la lotta, per il badminton, per le acrobazie del nuoto sincronizzato. Ma poi, ogni volta, le immagini si fermano, una sola foto, un video, i secondi di una corsa dove qualcosa è accaduto ed è rimasto nel gioco della memoria.
La corsa di Saamiya, ad esempio. Ragazzina somala, magra come un chiodo. Diciassette anni nel 2008, trentadue secondi per correre i duecento metri femminili a Pechino. Arrivò nove secondi dopo l’ultima Superwoman giamaicana. La folla benedisse la sua lentezza con mille applausi. Quattro anni dopo Saamiya voleva andare anche a Londra. Forse voleva arrivarci davvero se è salita su un barcone di migranti: è morta nel Mediterraneo. In mare non si corre.
Ancora duecento metri. Quarant’anni prima di Pechino, Città del Messico, 1968, l’anno in cui tutto è accaduto. I neri nordamericani vincono 24 medaglie nell’atletica. E due velocisti, un afroamericano e uno di origine cubana, alzano, sul podio della premiazione, il loro pugno nero nel silenzio improvviso dello stadio. Accanto a loro un piccolo atleta bianco, un australiano, è solidale con la loro protesta antirazzista. Tommie Smith, John Carlos e Peter Norman pagheranno per tutta la loro vita quel gesto. Ma la foto del loro coraggio è nei nostri occhi.
E io so qual è il sogno delle ragazzi e dei ragazzi che stanno per correre ad Addis Abeba: andare alle Olimpiadi. Correre per un ragazzo degli altopiani d’Etiopia è tutto. Inseguono la leggenda di Haile Gebrselassie, il fondista meraviglioso. A Jan Meda, ippodromo della capitale etiopica, fanno le loro prove. Arrivano dai villaggi, corrono, ogni mattina, per andare a scuola. Qui si sfidano, correre è la loro libertà. Le ragazze della foto hanno i piedi scalzi, corrono meglio a piedi nudi. Altre Olimpiadi tornano alla mente: i piedi nudi di Abebe Bikila sulle pietre della via Appia, la maratona di Roma, 1960, la prima medaglia d’oro di un atleta africano. Vinta senza scarpe.