Il dialogo del silenzio, per la pace
Come molti dei nostri lettori ricorderanno, la seconda guerra del Golfo iniziò il 20 marzo 2003 con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti d’America. Il destino volle che in quei giorni chi scrive si trovasse negli Emirati Arabi Uniti, uno dei Paesi della penisola arabica.
Sono trascorsi quindici anni d’allora, eppure ricordo come fosse ieri un evento che casualmente ho ritrovato, sotto forma di memoria, nel mio diario di viaggio. Ero giunto a Dubai da un paio di giorni. Estrema penisola affacciata sul Golfo, viene soprannominata «Mecca del turismo»: dappertutto hotel megagalattici, grattacieli, shopping-centre, autostrade… E dire che negli anni ’50 era un villaggio beduino di 5 mila abitanti lungo il Creek, l’insenatura che divide in due la città.
Allora, quando visitai Dubai, gli abitanti erano 1 milione e la stragrande maggioranza (circa l’85 per cento) risultava essere di origine immigrata. I national – gli arabi del posto – in netta minoranza, vivono ancora oggi da nababbi grazie al greggio, al commercio e al terziario. Ma quelli che pagavano, e pagano tutt’oggi il prezzo del benessere di pochi sono gli stranieri.
La manodopera a basso costo rappresenta, infatti, una delle grandi risorse dell’economia nazionale. Un operaio, poco importa se filippino, afgano o cingalese, in cantiere guadagnava allora 100 euro al mese e lavorava 14 ore al giorno, sei giorni su sette, in condizioni disumane. Ebbene, in questa città del deserto, a dir poco surreale, rimasi colpito da una manifestazione degli studenti dell’unica scuola cattolica della metropoli.
Accompagnati dalle parole del famoso pezzo Peace Train di Yusuf Islam – una volta Cat Stevens – circa 200 studenti del St. Mary’s Catholic High School, un istituto diretto dalle missionarie comboniane, lasciarono il cortile della scuola alle otto di sera e si riversarono su una strada del centro di Dubai per chiedere il dono della pace.
Una visione inconsueta che lasciò attoniti i passanti, soprattutto quando il vociare di tanti adolescenti si dissolse nel silenzio, a tratti scandito da preghiere. Le parole recitate erano declinate secondo le tradizioni cristiana, islamica e induista. Risuonavano quasi fossero una sorta di brezza spirituale per la loro semplicità e chiarezza.
Era un modo per riaffermare una sfera valoriale condivisa da quei ragazzi del St. Mary’s, appartenenti a religioni diverse. «Siamo qui a due passi dall’Iraq – mi confidò Xyza, diciottenne filippina, studentessa dell’ultimo anno – e nessuno sembra interessarsi della tragedia che si sta consumando quasi sotto i nostri occhi».
Seher Habibhollah, iraniana, compagna di Xyza, ribadì lo stesso concetto esprimendo la propria gioia, con un sorriso però celato dal suo chador, nel poter manifestare per la pace la propria opinione e il desiderio di un mondo più giusto e solidale. Jonathan, diciassettenne indiano, disse di voler comunicare alla società civile, con un gesto piccolo, un messaggio grande.
La fiaccolata durò poco più di mezz’ora e venne percepita come un qualcosa di decisamente inconsueto, profetico e coraggioso per Dubai, dove il benessere è esclusivo e non condiviso. Negli Emirati i lavoratori stranieri non si espongono quasi mai, per timore di perdere l’impiego e il permesso di soggiorno.
Ma i ragazzi del St. Mary’s, a differenza dei genitori, accettarono la sfida, marciando in silenzio, con le candele accese, testimoniando una voglia di fratellanza ben al di là dell’appartenenza etnica e religiosa. Anzi, le differenti origini non costituirono, per loro, un motivo di divisione, ma un impegno a lottare per un mondo migliore. Un vecchio sudanese, di passaggio a Dubai, mi confidò d’essere un sufi e commentò: «Saranno loro, questi ragazzi, a trasformare il mondo in un giardino ospitale».