Abbiamo qualche problema con la creazione che ci circonda e nella quale viviamo immersi. Da cui dipendiamo per tanti aspetti, dall’aria che respiriamo al cibo che mangiamo, ma anche per i nostri hobby filosofici, poetici, salutisti o anche solo estetici. E probabilmente in questi ultimi mesi ne siamo diventati persino ancora più consapevoli, nostro malgrado. Ma perché tutto non resti un pio proposito, potremmo andare a rileggerci l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco.
Oppure questa autobiografia green di Meir Shalev, che racconta, con serietà, coinvolgimento e perciò anche ironia, del suo quotidiano rapporto con il giardino selvatico, più o meno spontaneo ma sicuramente fatto di fiori e piante autoctone, e relativi semi, frutti e persino animali vari, che circonda esuberantemente la sua casa nella Valle di Izreel, in Israele: ciclamini, anemoni, ginestre, papaveri, bocche di leone, fichi, talpe, vespe e tanti altri. In alcuni casi, racconta l’autore, letteralmente salvati da qualche lavoro stradale o sbancamento di terreni e amorevolmente trapiantati nel giardino di casa.
Niente a che fare con i giardini più o meno «artificiali», pettinati, perfetti, intoccabili ed effimeri che ci tocca vedere qua e là (oltretutto assai costosi come mantenimento), ma molto più rispettosi, vitali, coinvolgenti, a lento ma sicuro rilascio emotivo. Nonché relativamente alla portata delle conoscenze botaniche di chiunque. Anche francescani: san Francesco chiedeva al frate giardiniere di riservare sempre una porzione di spazio per le piante selvatiche, perché con i loro colori e profumi anch’esse lodano il buon Dio! Del resto, chi stabilisce che un fiore è selvatico o meno? Che un albero è da frutto o no? Se non, la maggior parte delle volte, il nostro opportunismo o i nostri gusti discutibili?