«Il mio islam non conosce più odio»
Succedeva il venerdì, giorno delle lapidazioni. Appuntamento allo stadio di Kabul. Un rito «sacro» al quale partecipava anche il giovane Farhad. Era la massima punizione per i peccatori. Era giusta, come gli aveva inculcato il fondamentalismo vissuto in famiglia. A 12 anni aveva già visto teste mozzate, mani, di uomini e giovani «giustiziati», appese lungo le strade. E poi quei corpi di donne, avvolti nei loro burqa, cadere sotto le pietre. Ci andava spesso Farhad in quel luogo. Un momento di esaltazione collettiva, senza vergogna né pietà. La purificazione simbolica della società dai suoi «parassiti». L’inferno era lì. Da isolare e sconfiggere.
Farhad Bitani oggi ha 30 anni e quel mondo lo guarda in maniera diversa. La sua stessa vita oggi è cambiata, anche se la sua fede, ora più matura, nell’islam rimane. Occhi scuri in un volto ancora giovane, Farhad non nasconde il proprio passato. Anzi, lo ripercorre, lo analizza. Ne condanna le azioni, rilette nell’ottica della verità. «Quel tempo e quello spazio mi contagiavano. Non mi rendevo conto della mia disumanità», dice. Tutto era «guerra santa».
Un giorno, allo stadio di Kabul, Farhad ebbe, però, un sussulto. Provò qualcosa di diverso, di ripugnante: un misto di vergogna e pietà. In quell’area desertica, formata da sabbia ed erba secca, i talebani portarono una donna. Era stata condannata a morte perché infedele. Tutti a urlare: «Dio è grande». «Gridai anch’io – confida –. Al centro la donna, intorno pietre sparse sul terreno. Poi tutti ad afferrarle e lanciarle contro di lei. Una dopo l’altra su quel corpo che lentamente rallentò la sua difesa fino alla fine».
Farhad sentì una stretta al cuore. Di fronte a lui due bambine strappate all’abbraccio della madre. La donna le aveva salutate per l’ultima volta prima di essere lapidata davanti ai loro occhi. Le piccole continuavano a piangere disperate, mentre il loro papà augurava alla loro madre, sua moglie, l’inferno. Un rito agghiacciante che il giovane Farhad non riusciva più a spiegare. Voleva gridare, ma non ne trovava la forza. Quella scena segnò per sempre la sua esistenza: «Capii che anche le persone normali possono diventare degli animali, se vivono sempre in mezzo agli animali. Io davo ragione a quelle belve. Quel tempo e quello spazio mi contagiavano: non riuscivo a rendermi conto della mia disumanità».
Giù fino all’infernoFarhad è di etnia pashtun, la più diffusa in Afghanistan. Ha conosciuto il potere e la ricchezza. Ha vissuto nello sfarzo, prima di cadere nella povertà e nella disperazione. Ha toccato con mano violenza, crudeltà e odio. È sceso nell’inferno. Per poi rinascere una seconda volta. Ex capitano dell’esercito afghano, Farhad è nato e cresciuto nella guerra. È l’ultimo di sei figli di un generale dei mujaheddin. Il padre combatteva tra i guerriglieri di Ahmad Massoud. Dopo essere stato nell’esercito di Mohamad Najibullah, l’ultimo presidente della Repubblica democratica dell’Afghanistan, era diventato fondamentalista.
Nel 1997, quando i talebani erano già al potere, suo padre finì nel carcere di Kandahar per due anni. Con la mamma e uno dei fratelli vissero in povertà e nell’anonimato per non essere uccisi, fino a quando il padre riuscì a evadere: allora, fuggiti insieme in Iran, vi restarono fino al 2011. Poi di nuovo in Afghanistan, e il potere con i mujaheddin dell’Alleanza del Nord.
Farhad arrivò in Italia nel 2004. Il padre, vicino al presidente Hamid Karzai, venne mandato a Roma come consigliere militare dell’ambasciata afghana. «Quando sono arrivato in Italia – confida – provavo disprezzo per i cristiani. Pensavo a gente che meritava di essere distrutta. Imprecavo su voi infedeli». Propose di licenziare l’autista di suo padre, perché infedele. Beveva birra. «In quel periodo – racconta – non studiavo sui libri di scuola, ma imparavo a memoria il Corano».
Negli anni successivi frequentò l’Accademia militare di Modena. Conobbe persone di fede cristiana accoglienti, rispettose della sua religione. Persone capaci di piccoli gesti quotidiani, senza chiedere nulla in cambio, che scossero il suo cuore e lo fecero riflettere. Fu da quel momento che Farhad decise di approfondire il Corano in persiano: «Ce lo avevano insegnato in arabo – dice –, senza che sapessimo la lingua, trasmettendolo come volevano, per i loro obiettivi. Io, grazie a voi cristiani occidentali, ho scoperto davvero la mia religione».
L’attentato dei talebaniLa svolta decisiva avvenne nel 2011. Farhad Bitani, ritornato in Afghanistan per un periodo di licenza, sfuggì miracolosamente a un attentato teso dai talebani. Gliel’avevano giurato. Già nel 1999 Bin Laden aveva messo sulla testa di suo padre una taglia di 1 milione di dollari. Fu a questo punto che il giovane decise di cambiare vita, chiedendo e ottenendo asilo politico in Italia.
Dopo aver vissuto l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza nell’ipocrisia, sentiva un tremendo bisogno di verità. «Pronunciare la verità – sottolinea – è un piccolo gesto. La vera sfida è accettarla. E ancor più accoglierla come propria storia personale. Perché soltanto la verità può liberare il mio Paese».
Oggi Farhad vive e lavora in una città italiana, ma si sposta continuamente per portare la sua testimonianza in molte realtà: incontra studenti, membri di organizzazioni no profit, associazioni. A tutti dice che il dialogo tra islam e Occidente è possibile. In tanti hanno cominciato ad accusarlo di essere un «infedele»: «Sei diventato cristiano, ormai», dicono. «Dovremmo tagliarti la gola senza esitare». Un’accusa infamante. Una vergogna senza pari nel mondo islamico. «La verità è che chi mi accusa utilizza il nome dell’islam per opprimere il nostro popolo. Il nostro popolo soffre, viene affamato, ucciso». E anche chi osa raccontare la verità viene ucciso. Lo stesso libro di Farhad, L’ultimo lenzuolo bianco. L’inferno e il cuore dell’Afghanistan, pubblicato due anni fa, non è stato impresa facile e gli ha creato parecchi problemi e procurato minacce di morte.
Da «infedele» a testimone di paceL’Afghanistan, nel cuore dell’Asia, ha una storia millenaria. È crocevia di strade, culture, tradizioni. Una storia, la sua, fatta di conflitti e rivoluzioni, con rari periodi di pace. Tra questi, la fine degli anni Ottanta, quando le truppe dell’Armata Rossa lasciarono il Paese. «A distanza di anni – dice Farhad – la gente afghana non vive ancora in pace». Un popolo sempre in bilico, alla ricerca di una pace vera, una liberazione spesso promessa nel nome di Dio. Prima dai vari gruppi dei combattenti di Dio, i mujaheddin, poi dai talebani «studenti» che hanno imparato a memoria i testi sacri.
«Ma la guerra santa, lo jihad, – precisa – non ha dato l’indipendenza a nessuno. Ha soltanto consolidato il potere dei fondamentalisti. I talebani e i mujaheddin, i fondamentalisti, perseguitano la povera gente, assegnando il titolo di “infedele” a chiunque non accetti di sottostare ai loro soprusi, mentre i loro figli infangano il nome dell’islam in patria e in giro per il mondo con una condotta indegna. Contro la corruzione dilagante, il mio Paese ha bisogno di uno Stato forte, che possa sconfiggere il terrorismo. Perché le prime vittime del fondamentalismo sono proprio i musulmani, in un Paese martoriato, “ucciso dalla politica in nome dell’islam”».
Tempo fa pensava: «Sono nato musulmano e tutto il mondo deve esserlo». Ora Farhad è convinto che la libertà religiosa è la vera libertà dell’uomo. «Il cuore di ogni uomo è comandato da Dio – dice –. E Dio dà la verità a tutti. Basta saperla accogliere, basta sceglierla. Dio non costringe, né abbandona. Rende tutti liberi».
Quando ha cominciato a riconoscere come i fondamentalisti lo avevano ridotto, Bitani ha ripensato anche il suo rapporto con gli europei. «Perché siamo più peccatori noi degli altri – aggiunge Farhad –. Il vero islam l’ho visto in loro, nella loro disponibilità di incontro».
La notte degli attentati di Parigi, Bitani non ha dormito: «Nei volti dei giovani terroristi ho avvertito l’assenza di Dio. Quando non c’è Dio nella vita dell’uomo, tutto impazzisce. Perché l’uomo ha bisogno di Dio. C’è il rischio, anche per il cristianesimo, di vivere una fede superficiale, vuota. Ma io ho conosciuto un cristianesimo vissuto, testimoniato nel quotidiano da tante persone. Ringrazio Dio di avermelo fatto incontrare – continua –. Con questi esempi sono cambiato e oggi, con la gente che me li ha dati, da musulmano, voglio portare una testimonianza di amore e di dialogo».