Il sorriso di Lourdes
È lieve Lourdes, nonostante le nuvole gonfie di pioggia che spesso la avvolgono. Ti spiazza Lourdes. Ci arrivi e ti aspetti di incontrare un universo di dolore, la sintesi perfetta della sofferenza del mondo: persone malate, disabili, allettate, in carrozzina, anziani con poca vita davanti e tanta alle spalle. Tutti qui a impetrare il miracolo alla Madonna, all’Immacolata concezione, come lei stessa si presentò 160 anni fa nella grotta di Massabielle alla quattordicenne Bernadette Soubirous. E, invece, la realtà è un’altra: ci sono sorrisi, abbracci e tanta tenerezza dappertutto. Ci sono molti ammalati, sì, e magari sperano pure di guarire. Ma non è per questo che sono qui. Vengono soprattutto a chiedere a Maria di aiutarli a portare quello zaino così pesante che la vita a un certo punto ha caricato sulle loro spalle.
Tutto è lieve a Lourdes, perfino la sofferenza. Il dolore che, visto in qualsiasi altro contesto, scandalizzerebbe, qui pare affrontabile, quasi leggero. Perché qui si scopre che si può soffrire e non essere soli, aver paura e incontrare chi ti dona coraggio. Si può aver bisogno di tutto e trovare risposta. È questo il vero miracolo di Lourdes, quello che attrae ogni anno quasi 6 milioni di pellegrini che ne fanno il santuario più frequentato d’Europa. Certo, ci sono anche gli altri, di miracoli, quelli «canonici», settanta a oggi (l’ultimo, del 2008, è stato riconosciuto lo scorso 11 febbraio, in occasione del 160° anniversario della prima apparizione), ma non è per questi che si affrontano interminabili pellegrinaggi.
Questa cittadina di 15 mila abitanti ai piedi dei Pirenei ha qualcosa in più. Un fascino inspiegabile, una pace profonda che si coniuga con una silenziosa emozione. Un sorriso che ti rimane nell’anima.
È luogo di sorrisi Lourdes. A cominciare da quelli, silenziosi, che «la Signora» – come Bernadette la chiamò fin dai primi giorni – rivolse alla ragazzina nel corso delle prime due apparizioni del 1858 (diciotto in tutto, tra febbraio e luglio). «È il sorriso dell’accoglienza» ha detto il vescovo di Tarbes e Lourdes. Il sorriso di Dio.
È lo stesso sorriso che, nel 1903, conquistò il ventitreenne Giovanni Battista Tomassi, cambiandogli la vita. Giovanni Battista aveva una malattia invalidante che lo costringeva da quasi dieci anni in carrozzina. Ed era arrabbiato, tanto, con la vita e con quel Dio che sentiva così indifferente. Sentì parlare di Lourdes e dei miracoli che vi avvenivano e decise di partire. L’idea era quella di spararsi un colpo di pistola proprio a Lourdes, alla grotta di Massabielle, se non avesse ottenuto la guarigione. Uno spregio, il suo urlo in faccia al mondo per dire che lì non c’era nulla, né misericordia, né pietà. Ma, giunto ai piedi della statua dell’Immacolata, fu attratto da una volontaria che accompagnava un ammalato a compiere i tre gesti del pellegrino: toccare la roccia della grotta, accendere una candela e bere l’acqua della fonte mostrata da Maria a Bernadette. Fu l’amore di questa donna per il «suo» malato a colpirlo, a fargli capire che non c’è dolore così grande che non possa essere amato. Decise così di parlare con il vescovo e il giovane sacerdote (tal Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII…) che accompagnavano i pellegrini, rivelando le sue iniziali intenzioni e consegnando loro l’arma che aveva in tasca. Decise in seguito di fondare un’associazione che si sarebbe occupata di accompagnare gli ammalati a Lourdes: nacque così l’Unitalsi, l’Unione trasporti ammalati a Lourdes e santuari internazionali.
Anche noi siamo a Lourdes con l’Unitalsi, con il pellegrinaggio organizzato dalla sezione Triveneta nei giorni di Pasqua. Un viaggio impegnativo, quasi quarantott’ore, tra andata e ritorno.
Le emozioni nella cittadina ai piedi dei Pirenei si susseguono. Emozioni e tanta allegria. Sono soprattutto i molti giovani a diffonderla: sia che spingano una carrozzina, sia che preghino, sia che se ne stiano in silenzio alla grotta di Massabielle, hanno un perenne sorriso stampato sul viso. Sono oltre cento i ragazzi e le ragazze attorno ai 20 anni che partecipano al pellegrinaggio dell’Unitalsi. Con loro un manipolo di giovani sacerdoti, una suora – suor Annamaria –, e pure una decina di seminaristi. Chi dice che i giovani non credono più a nulla, dovrebbe vedere la passione per il Vangelo dipinta nei loro occhi puliti.
Sono tutti belli questi ragazzi, eppure molti di loro hanno già storie «pesanti» alle spalle. C’è Luigi (nome di fantasia), per esempio, che è qui perché ha trascorso otto degli ultimi dodici mesi in un letto: «So cosa significa stare dall’altra parte. E ora ho voluto dare una mano a chi sta male. Questa è la mia Pasqua». Chiara, 23 anni: «Sono a Lourdes per la quinta volta, ma quest’anno sono venuta a dire grazie al Signore perché l’ultimo anno è stato difficile». Elisabetta, 21: «Sono partita perché mia mamma mi ha parlato di Lourdes e mentre lo faceva piangeva». Tutti, al termine del pellegrinaggio, diranno che a Lourdes hanno ricevuto molto più di quanto abbiano dato. E tornano a casa con qualche nuovo amico e con la voglia di continuare a sperimentare che un mondo diverso è possibile.
«Lourdes cambia lo sguardo – aveva detto loro don Emanuele, uno dei sacerdoti della pastorale giovanile, all’arrivo –. Ci si accorge dei piccoli, che non sono sempre i malati. È importante trovare il tempo per stare da soli a pregare, non farsi fagocitare dal servizio per viverlo con serietà ma con leggerezza».
Tra i 950 pellegrini dell’Unitalsi Triveneta qui a Lourdes ci sono anche una quindicina di famiglie, alcune hanno figli ammalati o disabili, altre sono qui come semplici pellegrine. Una di esse è composta da Stefano e Barbara, con i loro figli: Carlotta, 14 anni, e Giulio, 11. Appartengono al «gruppo famiglie dell’Unitalsi», un gruppetto di otto nuclei familiari, cui periodicamente se ne aggiunge un’altra decina. Racconta Stefano: «Eravamo entrambi volontari Unitalsi. Dopo il matrimonio abbiamo scelto non solo di proseguire l’esperienza, ma di far vedere anche ai nostri figli che cos’è davvero Lourdes: un’occasione per servire e per capire che non sei tu il centro del mondo». Il «gruppo famiglie» trascorre anche altri momenti insieme: una settimana di vacanza al mare, qualche giorno in montagna, gite, momenti di formazione. «All’inizio l’idea era quella di dare un po’ di respiro a famiglie con figli disabili che, da sole, spesso vivono chiuse in casa; poi, con il tempo, ci siamo accorti che insieme ci divertiamo davvero e che per i figli questa è una scuola di vita. E anche noi adulti possiamo confrontarci nei vari aspetti della nostra genitorialità, sentendoci compresi».
«La felicità è sempre possibile, questo insegna Lourdes. In fondo, Gesù ci ha chiesto solo di essere felici», sottolinea Antonio Diella, presidente nazionale Unitalsi. E le sue parole prendono corpo chiacchierando con il dottor Armando Donello, responsabile per il Triveneto dei medici unitalsiani, da 36 anni immancabile presenza ai pellegrinaggi. Istrionico e di un’allegria contagiosa, Donello non nasconde le lacrime quando ripensa ai «suoi» ammalati. «Ci sono stati incontri che mi hanno cambiato la vita – dice –. Come quello con una donna eccezionale, malata di Sla. Dovemmo metterle il respiratore per la prima volta proprio qui a Lourdes, per l’improvviso aggravarsi della malattia. Eppure, un anno dopo, me la ritrovai alla stazione, con il suo ormai immancabile respiratore, e mi spiegò che voleva venire a dire grazie alla Madonna. E io mi domandai: “Com’è possibile?”. O l’incontro con il barelliere che scelse, dopo anni di servizio, di adottare un bambino gravemente disabile e poco dopo la moglie si ammalò e morì di cancro. Eppure lui continua a venire ogni anno in pellegrinaggio con suo figlio. Oppure, ancora, quell’ammalato che ci ritrovammo in stazione: con una collega capimmo che stava per morire. Avvicinato, ci confessò che gli restava poco tempo e che era venuto in pellegrinaggio con il desiderio di morire a Lourdes. L’ultimo giorno mi disse: “Dottore, la Madonna ha accolto la mia preghiera. Sto morendo. Sono felice”. E, prima di sera, chiuse gli occhi. Scoprimmo allora che era completamente solo e che il miracolo per lui era stato davvero quello di andarsene in pace, tra amici, come desiderava».
Gli fa eco un altro medico, Lorenzo Tobaldini, geriatra poeta: «Vengo qui da 23 anni. La prima volta ci arrivai per caso, in bicicletta. Lourdes rappresenta i miei esercizi spirituali, mi riconnette a Dio. Qui scegli la vita, perché decidi di vedere quei segni d’amore che non sempre decifriamo nella nostra esistenza».
«Lourdes ti fa capire che non sei solo – sintetizza don Giampaolo, responsabile della pastorale giovanile veronese – e che nessuno basta a se stesso. Ognuno di noi è una missione, un bacio dato al mondo. La conversione è comprendere che non siamo “venuti male”, che siamo uomini e donne meravigliosi, al di là dei nostri limiti. Gli abbracci inaspettati, i sorrisi sono belli e importanti, ma non c’è carezza tanto profonda come quella di chi ti rialza quando tu pensi di essere un disastro. E questo lo fa Dio, anche attraverso gli altri. Tu non puoi farlo da solo, è un peso troppo grande per chiunque».
Sul treno del ritorno, una malata mi confida: «Lourdes è un mistero. Ma è un mistero che senti vicino. Non lo so se avvengono i miracoli. Io ci sono andata per dire grazie al Signore perché sono felice, nonostante tutto».
Arriviamo a Verona. In stazione, al momento dei saluti, più di qualcuno piange. Bisogna tornare alla vita quotidiana, quella in cui non puoi fare un sorriso a un estraneo per strada, perché penserebbe chissà che. In cui non puoi azzardare una carezza a un conoscente, perché ti prenderebbe per pazza. Quella in cui non puoi dire che si può essere malati e felici, paralizzati e grati a Dio. Nei giorni seguenti, quando poi provi a raccontare, vedi che la gente ti guarda in modo strano. E allora spesso scegli il silenzio, ma con il cuore colmo di una gratitudine che nessuno ti potrà togliere. Almeno per un po’.
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