Il tempo che unisce
C’era una volta la globalizzazione, con tutte le sue narrazioni: caduta dei confini, mobilità di persone e merci, un villaggio globale divenuto sempre più piccolo e accessibile.
Poi, dopo la crisi del 2008, un brusco risveglio. Il lato brutale è emerso in tutta la sua ben poco attraente realtà: da una parte, la ricchezza si è concentrata nelle mani di pochi e non si è prodotto il benessere diffuso annunciato – al contrario, sono aumentate le disuguaglianze –; dall’altro lato, coerentemente con le promesse di felicità per tutti nel nuovo mondo senza confini, è cresciuto il fenomeno dell’immigrazione, in un modo per il quale si era totalmente impreparati.
Crisi economica e flussi migratori costanti accrescono le condizioni di incertezza, con costi che si scaricano soprattutto sulle classi più fragili: da qui lo sfruttamento in chiave populista delle paure e delle frustrazioni.
Si produce così un’enorme quantità di «vite di scarto», cui si risponde sempre più con la «globalizzazione dell’indifferenza». Inoltre, la mobilità è per pochi e a senso unico. Quella dai Paesi poveri verso quelli ricchi è scoraggiata in tutti i modi, quando non esplicitamente vietata. I confini che sembravano sfumare ritornano in primo piano, si innalzano muri, si ostacolano gli ingressi.
Il fallimento del progetto della globalizzazione dovrebbe però insegnarci altro: non è difendendo il nostro spazio che guadagneremo libertà, ma raccogliendo con responsabilità l’eredità che abbiamo ricevuto e cercando di trasmetterla a chi verrà dopo. Se lo spazio divide, lavoriamo perché il tempo ci unisca.