La crisi dei leader
Nella politica italiana degli ultimi venticinque anni è stata centrale l’immagine del leader indiscusso, del capo che prende decisioni da solo. In un sistema che è rimasto sostanzialmente democratico si è trattato di un cambiamento culturale e di mentalità importante; nella «prima Repubblica», infatti, erano i partiti, le organizzazioni sociali e i gruppi dirigenti i protagonisti della scena politica. Solo con l’avvento della «seconda», dopo Tangentopoli, si è creduto nel ruolo di leader autonomi saliti alla ribalta politica. A loro è stata affidata la rappresentanza, la narrazione politica e la presenza mediatica, nella convinzione che il loro essere nelle istituzioni figure forti potesse risolvere le carenze e le lentezze del nostro sistema democratico. Fino ad allora si era ecceduto in dibattito, in ascolto, in una democrazia partecipata ma inconcludente. È avvenuto così che i partiti si siano ridotti a una funzione di contorno, diventando «di plastica», senza veri legami col territorio. Insieme a loro, i corpi intermedi (associazioni, sindacati, movimenti) hanno perso visibilità e influenza.
Sono stati diversi i fattori che hanno contribuito a considerare necessario un leader al di sopra delle organizzazioni politiche. Tra questi possiamo elencare un sistema elettorale maggioritario, la coincidenza tra la figura del segretario del partito vincente alle elezioni e quella di premier, l’insoddisfazione per le lentezze di un sistema «troppo democratico», la crisi di credibilità dei partiti, l’esigenza di una maggiore velocità nelle decisioni, il moltiplicarsi degli episodi di corruzione. E, in ultimo, l’importanza nella politica dei media (la televisione soprattutto) che richiede figure e personaggi, prima che idee e pensieri forti.
Oggi, però – ed è questa la novità –, la figura del leader è in crisi. La ricerca di un capo cui delegare le decisioni si è mostrata, alla prova del tempo, illusoria. I leader più o meno solitari al comando – siano essi stati capitani di industria audaci, come Silvio Berlusconi, professori e grand commis di Stato come Romano Prodi, o giovani innovatori anti-ideologici, come Matteo Renzi – non sono stati capaci di dare soluzione ai problemi del Paese, anzi, la loro solitudine ha accompagnato il venire meno di comunità e aggregazioni importanti per la vita democratica. Di questo pare si sia presa consapevolezza. Lo dimostrano il dibattito sulla leadership che è aperto nel centro destra e le travagliate vicende del Pd e della sinistra. Anche le divisioni e le scissioni sono indicative della conclusione di una fase di delega a un uomo solo, alle sue idee e alle sue capacità. Non è un ritorno alla «prima Repubblica» e non è detto che la crisi della figura del leader sia sostituita da un nuovo e originale sistema democratico di formazione delle idee e del consenso. Appare indiscutibile, invece, che il modello vincente negli ultimi venticinque anni non funziona più ed è divenuta forte la consapevolezza che anche le decisioni più difficili possono essere realizzate solo se dall’«io» si passa al «noi».