Ladri di terre

Il «land grabbing», l’accaparramento di terre e materie prime, da parte dei Paesi più potenti a danno di quelli in via di sviluppo è un fenomeno sempre più ampio e pericoloso. Perché ruba storia, cultura, diritti, beni e, soprattutto, futuro.
21 Ottobre 2019 | di

Si racconta che, appena sbarcato nel porto di Kozhikode (India del sud) il 21 maggio 1498 e interrogato da due emissari sul motivo del proprio viaggio, Vasco da Gama rispose: «Cristiani e spezie!». Che si tratti di noce moscata o di incenso, di seta o d’argento, le materie prime svolgono da sempre un ruolo centrale nelle vicende umane e nell’economia del pianeta. «La storia delle materie prime è la storia dell’umanità stessa attraverso gli odori, i profumi, i fetori, le fragranze, i colori, i gusti, i sapori» scrive Alessandro Giraudo in Storie straordinarie delle materie prime (Add editore). Per il controllo di terre e risorse il sangue è stato versato in lungo e in largo. A cominciare dalla Mesopotamia di tremila anni fa, dove scoppiò uno dei primi conflitti per il controllo dell’acqua, negli ultimi 45 secoli si calcolano oltre cinquecento guerre legate al cosiddetto «oro blu». Senza contare quelle combattute per il possesso di metalli, cereali, carbone e, a partire dal 1956, del petrolio. Man mano che le materie prime acquisivano peso sullo scacchiere internazionale, nuove contese prendevano forma.

E così il land grabbing (dall’inglese: accaparramento di terra) è proliferato sulle spalle di popoli, animali e interi ecosistemi. Con un’accelerata negli ultimi cinquant’anni, periodo nel quale la popolazione mondiale è pressoché duplicata assieme a consumi energetici, urbanizzazione e inquinamento. Secondo il database Land Matrix, a marzo scorso erano 1.800 i contratti di acquisto o locazione di terra in corso di negoziazione, conclusi e falliti, per un totale di 71 milioni di ettari. Tra i «Paesi investitori» spiccano Usa (13,4 per cento), Cina (12), Canada (10,7) e Regno Unito (7,9), seguiti da Malesia, Spagna, Brasile, Corea del Sud, India e Svizzera. «Paesi target» sono invece: Perù (18,2 per cento), Repubblica Democratica del Congo (8,1), Ucraina (6,8). E ancora: Brasile, Filippine, Sudan, Sud Sudan, Madagascar, Papua Nuova Guinea, Mozambico.

Spogliate delle loro ricchezze e dei loro abitanti per far spazio a colture intensive, queste terre alla mercé di governi e multinazionali soffrono oggi più che mai una grave emorragia. «Un furto di identità culturali e colturali» che, parafrasando il Rapporto Focsiv 2019 «I padroni della Terra», evidenzia «il contrasto tra una visione culturale ridotta agli aspetti materiali e una concezione integrale dove l’uomo non è un agente esterno alla natura, ma ne è completamente parte e avvolto». In tal senso, il termine land grabbing assume un duplice significato: «Non si tratta solo di accaparramento materiale di terra, ma anche di identità, storie, rapporti umani con la madre terra e con lo spirito che tutto pervade». Di questo avviso è pure Marta Bordignon, presidente dell’associazione Human Rights International Corner e docente di politica europea contemporanea alla Temple University-Rome Campus: «Lo sfruttamento delle materie prime non è in realtà soltanto un problema etico e di concetto, ma soprattutto un problema culturale dovuto a una mancanza di sensibilizzazione, sia a livello di opinione pubblica sia a livello di operatori, sulle possibili conseguenze delle azioni umane sull’ambiente».

Un nuovo colonialismo?

Se è vero che quello alla terra è un diritto inalienabile dell’uomo, il land grabbing rappresenta la sua più grande violazione. Un «delitto» che, come scrive Maria Gemma Grillotti Di Giacomo in I predatori della terra. Land grabbing e land concentration tra neocolonialismo e crisi migratorie (Franco Angeli), «è stato a ragione definito “neocolonialismo e neoimperialismo”, perché è perpetrato dagli Stati più ricchi (governi, enti, società multinazionali, aziende pubbliche e private, fondi di investimento) a spese dei Paesi economicamente e tecnologicamente meno sviluppati». A far gola non sono solo la fertilità dei suoli o la ricchezza delle risorse minerarie e petrolifere, ma anche le bellezze naturalistiche che offrono chance a turismo, industria e urbanizzazione. L’acquisizione del terreno avviene generalmente in due modi: tramite affitto a lunga scadenza (90 anni e oltre) o tramite vendita per un valore spesso ridicolo («fino a meno di un dollaro per ettaro»). E la beffa non finisce qui. Da Nord a Sud land grabbing fa rima anche con abuso e violenza. Basti pensare ai 321 attivisti assassinati nel 2018 per essersi contrapposti agli interessi dei potenti tutelando diritti umani e ambiente. Ma anche alle donne discriminate in India e Indonesia. E ai bambini sfruttati nelle miniere di litio e coltan, minerale quest’ultimo che – grazie alla sua grande capacità di immagazzinare cariche elettriche (è un combinato di columbite, manganesio e tantalite) – viene considerato «il petrolio del futuro». 

Qualunque sia la modalità, lo sfruttamento della Terra ormai non conosce confini. Galoppa dal Congo al Mali, dall’Etiopia al Madagascar fino all’Amazzonia coperta dalle recenti fiamme. C’è il milione di ettari di terra concesso dal Primo ministro della Papua Nuova Guinea al governo filippino per la coltivazione del riso. Ci sono gli 11.400 ettari nigeriani sottratti da una compagnia che produce olio di palma a oltre dieci comunità dello Stato di Edo. E, ancora, spaventano gli oltre 13 mila ettari di foresta amazzonica peruviana convertiti in coltivazioni di palma da olio. Per non parlare del «paradosso Norvegia» che da un lato compare tra i maggiori donatori nella lotta alla deforestazione nell’Amazzonia brasiliana e dall’altro sostiene l’attività (di allevamento bovino) più nociva a quel polmone verde. In un simile calderone di investimenti e speculazioni, però, non tutto puzza di marcio. 

Non tutto è perduto

Anche se rari, gli esempi positivi ci sono. Come l’iniziativa hawaiana Mahi Pono («coltivare moralmente») che, grazie a una joint venture, ha avviato sull’isola di Maui, in un terreno di 165 km quadrati precedentemente riservato alla canna da zucchero, un’agricoltura diversificata che sfama e crea posti di lavoro per gli autoctoni. Anche la più piccola minoranza etnica è importante per salvaguardare il pluralismo globale. E finalmente questo concetto inizia ad affermarsi. Si pensi alla nuova legislazione del Mali del 2017 per la formalizzazione dei diritti consuetudinari sulla terra, ma anche ai diversi Paesi che stanno rivedendo le regole e rafforzando i controlli. Certo, a incentivarli in molti casi sono state le proteste della popolazione locale, su tutte quella del Madagascar che, dopo aver provocato la caduta del governo nel 2009, ha sortito una crescente attenzione delle istituzioni nei confronti di terre e civiltà ancestrali. In questa direzione, a livello internazionale molto sta facendo l’ONU che, impegnato con vari organismi come il Forum permanente sulle questioni indigene, il 19 novembre 2018 ha approvato la Dichiarazione per i diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano in ambito rurale. Ora la priorità va al «Trattato» (The Treaty) internazionale giuridicamente vincolante in tema di diritti umani e imprese a cui l’ONU sta lavorando sin dal 2014. Una prima bozza (Zero Draft) è stata discussa nel 2018, ma la strada verso una concretizzazione è ancora lunga. 


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Data di aggiornamento: 21 Ottobre 2019
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