L'altra faccia dell'idolo
Novembre 2001. La campanella delle 10,45 segna la fine dell’intervallo in un liceo vicentino. Mentre gli studenti si avviano fiacchi alle aule, un biondino secco come un giunco resta appollaiato alla balaustra in cortile. Sul suo capo, un paio di cuffie giganti. Lui muove la testa al ritmo sincopato della musica, poi tira fuori dalla tasca dei jeans il mitico Nokia 3210, controlla l’ora e punta il corridoio con passo molleggiato. Canticchia un ritornello che fa cosi: «Hello, hello, hello, how low» («Ciao, ciao, quanto in basso», da Smells like teen spirit). Quindi cala le cuffie sul collo ed entra in classe strisciando a terra gli orli strappati dei pantaloni. Il suo nome è Riccardo, anche se per tutti si chiama Kurt, come il leader dei Nirvana, la band americana che aprì la strada al grunge (genere musicale rock alternativo).
Novembre 2021. Sono le 19.44 nell’appartamento di una normalissima famiglia dell’hinterland milanese. Mentre aspetta la cena, una bambina di 9 anni sfila dalla tasca del papà lo smartphone, clicca sull’app della sua marca di abbigliamento preferita e salva nel carrello una t-shirt con su scritto «Nirvana» sopra un grande smile. Sono passati trent’anni da quando Nevermind, l’album più conosciuto del trio di Aberdeen (Washington, USA) sconvolse il mondo della musica rock. Ventisette da quando il loro leader Kurt Cobain – ironia della sorte, 27enne –, schiavo dell’eroina, si suicidò. Un bel po’ di tempo insomma. Eppure ancora oggi quella voce fragile e quello sguardo triste da genio incompreso sono più vivi che mai nell’immaginario collettivo. L’immaginario di chi i Nirvana se li ricorda bene, perché da adolescente aveva consumato le loro cassette a forza di ascoltarle, ma anche di chi li ha scoperti dai racconti dei genitori, su internet o magari in qualche playlist di Spotify.
Nevermind. Non importa. La musica, quella bella, non ha età. Non conosce barriere sociali o anagrafiche, perché parla al cuore delle persone. A volte fa piangere e irrita, a volte insegna e fa sorridere. Di certo, però, non lascia mai indifferenti. Proprio come le canzoni di Kurt Cobain e dei Nirvana. Uno straordinario mix di sofferenza, ansia e stupore. Lo stesso che proviamo ancora oggi nel vedere il neonato che insegue sott’acqua una banconota da un dollaro presa all’amo, nella cover di Nevermind. Era il 24 settembre 1991 quando quell’immagine shock sbarcò in tutti i negozi di dischi. La casa di produzione Geffen Records (la stessa dei Guns ‘n Roses e degli Aerosmith) non poté nulla contro la determinazione di Cobain e compagni (il bassista Krist Novoselic e il batterista Dave Grohl).
Con questa lampante critica alla società dei consumi, i Nirvana si affacciavano al mondo dello star system incuranti delle sue regole, quelle regole che di lì a breve li avrebbero messi alla prova e piegati, ma mai spezzati. Anche dopo la morte di Cobain e lo scioglimento della band, l’identità dei Nirvana rimase fedele a se stessa. «Come as you are, as you were, as I want you to be» («Vieni così come sei, come eri, come io voglio che tu sia») cantava il celebre frontman, inneggiando al diritto di essere se stessi sempre e comunque.
Modello di fragilità
Enfant prodige (iniziò a suonare il pianoforte e a cantare a 4 anni), figlio di un meccanico di origini irlandesi, adolescente ribelle segnato dal divorzio dei genitori, paladino dei diritti umani, rock star idolatrata da schiere di fan in tutto il mondo, marito (di Courtney Love) e padre (di Frances Bean) consumato dalla droga… Chi era davvero Kurt Cobain? Lo abbiamo chiesto a chi lo conosceva bene: l’ex manager dei Nirvana, Danny Goldberg. «Non c’era alcuna differenza tra il Cobaine “pubblico” e quello “privato”. Kurt era una persona onesta, incredibilmente intelligente, gentile e premurosa verso il prossimo, eccetto quando aveva l’impressione che gli mancassero di rispetto. Aveva un gran senso dell’umorismo e un temperamento modesto, ma nelle questioni di estetica e di principio tirava fuori una chiarezza e una fermezza incrollabili».
Una persona normale, insomma. Con alti e bassi, ombre e luci. Uno di noi. Forse è proprio questo che rende Kurt Cobain tanto speciale e, in un certo senso, «eterno». «Penso che Kurt fosse sintonizzato con un luogo profondo della psicologia umana. In particolare, la psicologia dei giovani – continua Golberg, che a Cobain ha dedicato un libro, Serving the servants. Ricordando Kurt Cobain (Harper Collins) –. La sua comprensione, la compassione per il dolore e la sua vulnerabilità trascendono le generazioni e gli stili musicali. E questo è il motivo per cui è facile vedere giovani che non erano ancora nati all’epoca di Nevermind indossare oggi le t-shirt dei Nirvana».
Poco importa se alle orecchie dei fan (compresi i madrelingua americani!) i testi di Cobain risultano spesso incomprensibili, se le parole navigano tra le note senza un collegamento logico. «L’apparente senso incompiuto delle frasi crea un’ambiguità semantica che permette all’ascoltatore di attribuire molteplici significati, di interrogarsi sul senso di quelle parole e di immedesimarsi». Ne è convinta Anna Lisa Tota, docente di Sociologia della musica all’Università Roma Tre, che non nasconde il suo apprezzamento per la band di Aberdeen. «Ascoltare una canzone dei Nirvana è un po’ come rimettere insieme i pezzi di un puzzle». Un puzzle dai contorni sfumati, che trae ancora più forza e appeal dalle funeste vicende legate alla vita del compositore. «Quello dell’artista maledetto che muore prematuramente, magari in circostanze misteriose, è un tema molto indagato dai sociologi – continua la docente –. È un po’ come se la morte divenisse parte del meccanismo che crea la reputazione e accendesse la fascinazione nel pubblico. Certo, senza nulla togliere al talento di Cobain e company (al cosiddetto "club 27" appartengono anche altri artisti morti 27enni come Jim Morrison e Janis Joplin)».
Questo processo che trasforma artisti in idoli, tuttavia, non è negativo a priori. «Se sono fan di un musicista tossicodipendente non per forza farò la stessa fine – continua Tota –. Anzi, sapere quanto Cobain abbia sofferto può aiutare a prendere le distanze da certi atteggiamenti pericolosi». L’importante è approcciarsi a questa musica nel modo giusto. «Noi costruiamo il significato di ciò che udiamo, perciò è importante ascoltare insieme, genitori e figli, raccontando la storia dietro alle note». La storia di un grande artista vittima delle sue debolezze, ma anche quella di un nuovo modello maschile lontano anni luce dall’uomo senza paure in voga negli anni ’80. «È importante che nella società circolino modelli plurali di maschile e femminile – aggiunge la professoressa Tota –. Più scenari abbiamo davanti, più siamo liberi di scegliere chi vogliamo essere e di comprendere il diverso da noi. In questo senso l’esempio di Cobain, con la sua disperazione, può aprire nella società una riflessione importante, favorendo l’empatia verso il prossimo». Che sia un musicista maledetto, un adolescente in crisi o – per restare ancorati alla cronaca – un migrante appena sceso dalla nave.
Da qui il senso più profondo e il compito più gravoso della musica: «Dentro ognuno di noi convivono il bene e il male – conclude don Domenico Lando, direttore del coro della diocesi di Oppido Mamertina-Palmi (RC) e responsabile della Musica Sacra per la Calabria –. Compito della musica è portarci dalle tenebre verso la luce. Perché chi va verso la luce va verso Dio». Come direbbe Kurt Cobain, «Sunday morning is everyday, for all I care. And I’m not scared. Light my candles in a daze. ‘Cause I’ve found God» («Ogni giorno è domenica mattina, per quel che mi interessa. E non sono spaventato. Accendo le mie candele in uno stordimento. Perché ho trovato Dio», Lithium).
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