L’atelier delle rifugiate irachene
Un vero e proprio laboratorio di sartoria per «ricucire» la speranza dei cristiani, fuggiti dall’Iraq a causa delle persecuzioni del Daesh. È questo il progetto che Caritas Antoniana sta condividendo ad Amman in Giordania con i frati della Custodia di Terra Santa per ridare un lavoro e un piccolo reddito a 20 ragazze finite nel limbo dei richiedenti asilo.
La Giordania è tra i Paesi che più stanno pagando lo scotto dei conflitti mediorientali, non solo per la posizione geografica, al confine con la Siria e l’Iraq, ma anche perché, godendo di stabilità politica, si è trovata ad accogliere oltre 720 mila rifugiati (UNHCR giugno 2017), quasi il 10 per cento della popolazione. In crescita anche il numero di rifugiati iracheni, buona parte dei quali sono cristiani. La loro situazione preoccupa in modo particolare i frati di Terra Santa perché «nel Paese, ai profughi iracheni – spiega Vincenzo Bellomo, referente per il nostro progetto –, non è riconosciuto lo status di rifugiato, ma solo quello di richiedente asilo. Ciò significa che non possono lavorare, accedere ai servizi e integrarsi in Giordania. Una situazione in bilico, che li porta al limite della depressione».
In questo contesto, solo la Chiesa può dare loro aiuto. E di fatto nascono molte iniziative per dar loro sollievo. Una di queste è il progetto Rafedín – Made by Iraqi Girls, un progetto di moda e sartoria artigianale, nato nel marzo del 2016, per dare alle giovani cristiane irachene la possibilità di imparare un mestiere. «Abbiamo iniziato con dieci ragazze tra i 20 e i 30 anni – racconta Bellomo –, che hanno frequentato un corso base con una sarta italiana. Dopo i primi campioni, è iniziata la vendita attraverso canali italiani. Visto il successo, il gruppo è stato aperto ad altre dieci ragazze e si è deciso di affiancare una professionista locale, passando a creazioni più complesse». Oggi i prodotti dell’atelier sono visibili su Facebook.
Un’evoluzione che però ha richiesto un nuovo laboratorio più grande e attrezzato. Per il locale ci hanno pensato i frati, mettendo a disposizione stanze dell’ex convento francescano in città. La richiesta a Caritas Antoniana è stata invece quella di accollarsi le spese per la ristrutturazione e l’acquisto di mobilio, materiali e attrezzature.
Grande l’impatto sulla comunità cristiana irachena. Le ragazze imparano un lavoro di qualità e, nello stesso tempo, ricevono un «rimborso spese» che è l’unico introito sicuro per la famiglia. Sono le stesse beneficiarie a riportarci la loro esperienza. Sally, 24 anni, originaria di Kirkuk, inizia raccontando come è arrivata ad Amman: «Io e la mia famiglia siamo stati costretti a lasciare l’Iraq: eravamo trattati come dei terroristi. Un giorno ci hanno detto che se fossimo rimasti ci avrebbero ucciso. Non ci rimaneva che la fuga. E così non ho potuto concludere i miei studi all’università. Il primo periodo ad Amman è stato durissimo. Cercavo di ingannare il tempo studiando inglese, nella speranza che potesse servirmi per il futuro. Ma anche questo non mi bastava. Le giornate erano lentissime e senza scopo. Poi ho conosciuto Refedìn e la mia vita è cambiata».
Le fa eco Dalida, 25 anni, di Baghdad: «Ho studiato informatica a Mosul. E prima della guerra vivevamo sereni con la mia famiglia. Siamo dovuti scappare, senza neppure avere il tempo di pensare a cosa portarci dietro. Abbiamo chiuso la porta di casa, sapendo che non saremmo più tornati indietro. Grazie a Refedín ho ritrovato la speranza. Grazie perché ci state aiutando, ma grazie anche per avermi fatto ritrovare il buon umore».