50 anni fa la Populorum Progressio, l’enciclica profetica di Paolo VI
Esattamente 50 anni fa, per la Pasqua del 1967, Paolo VI ci donò l’enciclica sociale Populorum Progressio. Erano passati appena due anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II e il messaggio centrale è ancor oggi di un’attualità sorprendente: «Non la ricchezza egoista e amata per se stessa, ma l’economia al servizio dell’uomo, il pane quotidiano distribuito a tutti, come sorgente di fraternità e segno della provvidenza». (n. 86). Se lo avessimo ascoltato oggi non ci sarebbero i barconi.
È bello riprendere in mano la Populorum Progressio, perché è il cuore del pontificato di Paolo VI ed è insieme alla base del papato di Francesco e del capitolo secondo della sua Evangelii Gaudium. Bergoglio per primo l’ha vissuta, prima di divenire Papa, dentro le periferie argentine. I bagliori di quell’enciclica giunsero fino al Documento di Aparecida, stilato nel 2007 dallo stesso Bergoglio a conclusione della V Conferenza generale dell’episcopato latino-americano e dei Caraibi, nel quale si ribadì che la povertà è la sfida decisiva della Chiesa di oggi. Una scelta che riporta a un documento poco noto ma fondamentale, Il Giuramento delle Catacombe, sottoscritto alla fine del Concilio Vaticano II da 40 padri conciliari, tra cui il vescovo brasiliano Helder Camara, nel quale i presuli s’impegnavano a mettersi dalla parte degli ultimi. Un impegno solenne a cui Paolo VI cercò di dare corpo, riprendendo il «triangolo della pastorale» di Antonio Rosmini: la fede, che cambia il mondo, si evidenzia e si testimonia nella povertà. Questa, a sua volta, offre alla Chiesa il dono più prezioso: la libertà.
Questo è lo sfondo teologico in cui agì papa Paolo VI, seriamente colpito dal dolore e dalla povertà che aveva toccato con mano durante alcuni viaggi in Africa e in America Latina, quando era ancora cardinale. Una volta Papa, aveva portato la voce di quei popoli oppressi da un’economia sbilanciata fino all’Onu. Era il 1965. Davanti a quell’assemblea che rappresentava il mondo si era dichiarato «avvocato dei poveri». E aveva lanciato il grido ardente: «Mai più la guerra, mai più!». Paolo VI si mise all’opera. Fece confluire il distillato delle sue esperienze e riflessioni in un’enciclica, la Populorum Progressio appunto, che è sempre più attuale, perché quelle scelte che allora egli ci chiese di fare come nazioni ricche, noi non le abbiamo fatte. E oggi i barconi sono frutto di quell’omissione. I popoli oppressi stanno bussando alle nostre porte.
Per Paolo VI lo sviluppo ha due facce ed esse sono inscindibili. Esso, infatti, deve essere da una parte integrale, dall’altro, solidale. Perché non c’è identità senza solidarietà. E questa non regge, senza una chiara identità. Tutto l’uomo vi è coinvolto. Ma lo sviluppo è vero se è per tutti. In diocesi stiamo applicando questa lezione in una scuola di socio-politica. Questa rilettura giova per attuare scelte vere in campo culturale, economico e politico. Ci chiediamo, per esempio, guardando alla fatica delle aree interne del Molise e dell’Abruzzo e alla nostra economia non solidale, se sia stato giusto abolire, di fatto, le province, con un’impalcatura legislativa farraginosa e deresponsabilizzante. Lo sviluppo delle nostre terre marginali richiede istituzioni vicine, scuole efficienti, parrocchie-sentinelle. Un tessuto sociale capace di valorizzare la tipicità e di denunciare, se serve, chi è avido di potere. È la lezione che ha fatto sua 50 anni fa anche don Milani con la scuola di Barbiana. Il suo modo di attuare lo sviluppo solidale e integrale era tradotto nel suo motto «I care». Solo così, ne era convinto, la politica cambia: «Uscire da soli dai problemi, è avarizia; sortirne insieme, è politica». Diremmo, che i due anniversari si intrecciano. Barbiana è già la Populorum Progressio attuata. Poiché il fine dell’enciclica non è quello di avere di più, ma di essere di più.