Le immagini dell'addio: arte terapia in hospice
Come si fa a parlare di morte quando il cielo è così bello? Mi sorprendo a pensarlo in una tersa giornata autunnale, mentre risalgo in macchina la collina di Poggio Imperiale, sopra Firenze. Stride la bellezza, quando stai per immergerti nel dolore più totale e assoluto. La mia meta è infatti l’hospice di San Felice a Ema, una delle tre strutture per le cure palliative dell’Asl 10 di Firenze. Lì ad attendermi c’è Stefania Romano, dal 2010 arte terapeuta de «La Finestra», associazione di volontariato fondata nel 2000 con l’intento di migliorare la qualità di vita dei pazienti oncologici e dei familiari. L’associazione offre alle persone ammalate terapie di tipo artistico che stimolino la creatività o, nel caso dei pazienti terminali, che facciano emergere le emozioni legate alla morte quando questa è molto più che una lontana possibilità.
«Non sono una psicologa – precisa subito Stefania –, anche se l’aspetto psicologico è parte della mia formazione. Ho studiato a lungo arte terapia prima di potermi avvicinare ai pazienti e aiutarli, attraverso forme artistiche, a tirar fuori le emozioni. Dinanzi alla malattia grave fluiscono stati d’animo molto difficili da descrivere, che solo l’immagine può aiutare a esprimere. In hospice, poi, c’è l’aspetto del fine vita, un momento estremamente importante, risolutivo di un’intera esistenza e in cui c’è spesso un riposizionamento dei valori».
Stefania si muove nell’hospice con un piccolo carrello di metallo carico di pastelli, colori a olio, pennarelli, gessetti, fogli di carta e cartoncino, forbici e riviste. Dopo aver proposto a un paziente di lavorare sulla propria creatività, lei si mette all’opera. «Una delle maggiori difficoltà – sottolinea Romano – è che ogni incontro può essere l’unico. Quindi è molto importante che il singolo percorso abbia in sé un inizio e una fine. Non tutti accettano subito di mettersi in gioco, ma, quando lo fanno, si riconnettono a una gioia antica che li rende felici».
Non solo i materiali utilizzati, ma anche le tecniche proposte da Stefania Romano sono differenti: si va dal semplice disegno al collage; dal tracciare dei segni a occhi chiusi al colorare. «Al di là della tecnica scelta – racconta Stefania –, ciò che conta è che quanto si realizza venga fatto insieme. Il paziente ha bisogno di sentirsi dire: “Tu fai il disegno, ma io sono accanto a te, così se senti il bisogno di dirmi qualcosa me lo dici”. Non si tratta di un semplice disegno, ma di un vero e proprio processo».
A chi non riesce nemmeno a colorare, l’arte terapeuta viene in aiuto con delle cartoline illustrate da guardare, ancora una volta, insieme. «Si tratta di immagini che hanno a che fare con la natura – puntualizza – e che favoriscono la creazione o la riconnessione con immagini interiori che possono evocare memorie, nuovi orizzonti, fantasie, emozioni, desideri. È un’attività semplice, ma che riesce a toccare l’anima delle persone e permette loro di esprimersi, di gioire, di desiderare, di chiedere. Con una cartolina si possono raggiungere tanti luoghi esistenziali: la storia della famiglia, quello che si sarebbe voluto fare e non si è fatto oppure la bellezza di un’esperienza realizzata». Se in questa fase della vita riuscire a «dire» le emozioni è fondamentale, altrettanto lo è il contatto con le risorse interiori cui i pazienti possono attingere nel percorso che li attende. «Succede spesso che le persone ammalate credano di non avere più risorse. Così, la loro riscoperta diviene un dono insperato cui aggrapparsi», aggiunge l’arte terapeuta.
Purtroppo per qualcuno nemmeno osservare le cartoline è più possibile, ed ecco che allora Stefania Romano utilizza la tecnica del rilassamento immaginale. «In questi casi, attraverso il colloquio, cerco di evocare le immagini che uno si porta dentro, tento di entrarci e di riproporgliele in un modo diverso, affinché si radichino e liberino tutta l’energia di cui poi il paziente può servirsi. È capitato che alcuni, mentre parlavamo del mare, ne sentissero l’odore. E avvertire l’odore del mare steso nel letto di un hospice è un gran bel dono».
I pazienti di Stefania sono donne, uomini, giovani, anziani. Se gli anziani sono in genere molto disponibili a collaborare con lei perché vivono questo momento come più naturale, con i giovani (quando il loro «dolore totale» non è così grande da chiudere ogni pertugio) c’è un grande lavoro da fare: ci sono commiati, ci sono disegni o fiabe da realizzare per i bambini che si stanno lasciando e con i quali non si riesce più, a volte, a comunicare in altro modo.
«Nelle immagini – confida Romano –, torna spesso il mare che, al di là del suo significato psicologico, è un elemento vitale, che richiama un senso di infinito e di libertà. È un orizzonte aperto ma non vuoto, capace di comunicare bellezza e pace. Nei disegni o nei collage ci sono anche molti bambini e molta natura, simbolo di vita. È come se il paziente dicesse: “Io lo so che la vita va avanti, lo sento giusto e voglio lasciarlo detto”».
E, una volta terminate, alle opere che succede? chiedo a Stefania. «C’è chi le conserva nel proprio cassetto. Chi chiede a me di custodirle, facendomi un dono immenso. E chi invece accetta di appenderle nella bacheca presente in ogni camera, trasformandole così in piattaforme di comunicazione che possono essere utilizzate anche dagli operatori e dai familiari. Mi è capitato di assistere a dialoghi, stimolati dai disegni, che hanno portato a vere rivelazioni. È un passaggio importantissimo, perché consente al malato di “fare pulizia”, di non portarsi appresso cose inutili. I familiari, inoltre, sono felici dinanzi alla vitalità che ancora percepiscono nel loro caro. E poi i disegni, dopo che chi li ha fatti se n’è andato, assumono per chi resta un valore immenso».
Con Stefania guardiamo alcune delle opere realizzate, tutte diversissime eppure tutte molto belle. Sono immagini preziose. Osservandole, si percepisce di entrare in uno dei recinti più sacri dell’esistenza umana, in cui si vede e si tocca il dolore di chi se ne sta andando (come, per esempio, in un disegno di un serpente), ma anche la bellezza della vita (i panorami coloratissimi). Tra tutti, due mi colpiscono in modo particolare: un albero e un fiore. Il primo è diviso a metà in modo netto: in una parte ci sono fiori e foglie, nell’altra solo rami secchi, vita e morte che pulsano nello stesso corpo. Il secondo raffigura una rosa sulla quale sono impressi dei segni che non riesco a decifrare. È Stefania a spiegarmene il senso: «È stato realizzato da una giovane donna. La rosa rappresentava lei e quei piccoli segni sono le lesioni che le ferivano il corpo e che, solo grazie al disegno, è riuscita ad accettare».
La visita è terminata. Mentre saluto la mia guida espiro profondamente, quasi a voler allontanare da me tutto quel dolore. Eppure nel mio animo c’è anche una strana gioia, oltre a un profondo senso di gratitudine per Stefania e per chi, seppure involontariamente, mi ha fatto entrare nel perimetro della sua intimità più sacra. Solo più tardi capirò l’origine di quella gioia: mi stato appena fatto il dono di poter toccare il cuore della vita, perché proprio la sua fine è, paradossalmente, il momento più pieno dell’esistenza.
L'articolo è pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio di novembre 2019 e nella versione digitale della rivista. Provala subito!