Le mani della chirurga
Alcuni mesi fa, mani esperte hanno inciso il mio addome. Un’ernia da ricucire. La chirurga apparve in sala operatoria con scintillanti ciocche azzurre. E io, prima di addormentarmi, pensai: «Ecco, la fata turchina…».
In quel momento, non ebbi attenzione alle sue mani, erano nascoste da un telo verde. Vi ho pensato solo giorni dopo. Ora so che indossa guanti numero 7. La misura più piccola è inferiore di appena un numero.
Non ho studi classici, ma avrei dovuto sapere: kheír kheirós (χείρ-χειρός), mano. La chirurga è «colei che cura le malattie con l’uso della mano». E allora decido di andare a trovarla. «Sono stata precoce – mi dice –. Avevo tre anni e, puoi non credermi, ricordo di aver saputo allora del trapianto di cuore realizzato da Christiaan Barnard. Ne sono certa: mi affascinò un racconto in televisione. Fu in quel momento che decisi di essere medico e chirurga. Volevo salvare vite e salvarle con le mani».
La mia chirurga è mancina, e le sale operatorie sono attrezzate per i destri. Non è diventata cardiochirurga, ma ricorda quando, con le mani, salvò un uomo con un massaggio cardiaco. È stata in Africa come medico e ha ancora negli occhi cosa accade in un ospedale della Tanzania. Vuole tornare laggiù. Dove i medici lavorano con «niente». E ancora più con le mani.
L’uso del bisturi le ha provocato calli sull’indice e sul medio. Assieme al pollice sono le dita più importanti della sua mano. Il povero mignolo serve a ben poco. L’indice ha le cicatrici di numerosi tagli prodotti dal filo chirurgico. Lei allena le dita a fare i nodi, e protegge, con cura, la sua mano sinistra.
«A volte sento su di me tutto il peso del mondo – racconta –. Mentre le mani di un chirurgo devono essere leggere. Ricordo un medico spagnolo, uno dei miei maestri: aveva mani grandi, ma saturava i vasi con lievità. Sembrava un danzatore». La chirurga è un’artista. O, forse, un’artigiana con «l’intelligenza nelle mani». Ci vuole estro in questo mestiere che ha che fare con il corpo di altre persone.
Il chirurgo deve ripetere gli stessi gesti. E deve sempre dare il meglio di sé stesso. Ora, lontano da una sala operatoria, guardo le mani della chirurga: sono piene di anelli, mani giocose, piccole, allegre. Beviamo assieme una birra.
In Africa era accaduto questo: un ragazzo avrebbe potuto essere salvato, occorrevano cinquecento euro per le cure necessarie. I medici stranieri avevano deciso di raccogliere questi soldi. I medici africani obiettarono: «Non lo fate, verrebbero tutti a pretendere la stessa possibilità». La famiglia avrebbe potuto indebitarsi, il padre disse: «Non posso, ho altri otto figli, reclamerebbero lo stesso comportamento se dovesse capitare a loro. Io posso fare un altro figlio». E se ne andò. Immagino le mani della chirurga abbandonate lungo i fianchi mentre guarda quell’uomo camminare via con il figlio malato.