Imprevisti di viaggio
Rieke è un medico specialista in rianimazione e terapia d’urgenza. Quarantenne single, vitale e attraente, è una professionista esperta e lavora sulle ambulanze a Colonia, in Germania. Ha una temeraria passione per la vela e sta programmando un viaggio di piacere nell’Oceano Atlantico, in solitaria, senza cellulare, internet, né altre distrazioni. Porto di imbarco: Gibilterra. Destinazione: l’isola di Ascensione, poco a sud dell’equatore, un’isola vulcanica cara a Darwin, lo scienziato naturalista – padre dell’evoluzionismo – che studiò quei territori, suggerendo ai botanici inglesi dell’Ottocento di creare un ecosistema artificiale su un terreno allora spoglio. L’impianto boschivo progettato allora continua a espandersi spontaneamente e le lussureggianti vegetazioni sono riprodotte a colori sui preziosi testi di botanica consultati a bordo dalla protagonista.
Ma ogni viaggio ha imprevisti. Dopo una tempesta, Rieke incrocia un peschereccio in avaria, stipato di profughi emigrati dall’Africa, che invocano aiuto. Che cosa fare? Il medico si trova nel cuore del dilemma etico spesso riproposto a causa dei continui flussi migratori dal sud del mondo. Da una parte vigono le regole diplomatiche, gli accordi statali di non interferenza, il calcolo utilitaristico delle conseguenze: se ti avvicini ai profughi col tuo scafo di soli dodici metri, induci panico ulteriore e altri disperati si getteranno inutilmente in mare. Dall’altra parte c’è il dovere primario di curare i moribondi, di mettere in acqua salvagenti e provviste per offrire una pur flebile chance di sopravvivenza, di onorare una legge morale di prossimità, una legge (avrebbe detto Kant) venerata e ammirevole come un cielo stellato.
La dottoressa Rieke, abituata a soccorrere feriti in condizioni d’emergenza, dispiegando tutte le moderne tecniche di rianimazione, avverte come colpa personale la sua raccapricciante impotenza di fronte a un’imbarcazione carica di esuli, che sta colando a picco a soli 150 metri di distanza. Chiede aiuto ad altri natanti, sorveglia con ossessiva pazienza, ma poi decide di coinvolgersi e passare all’azione. «S.o.s.» sta per «save our souls», «salvate le nostre anime». Non è semplicemente un gergo marinaro, è l’invocazione etico-religiosa che il mondo del commercio globalizzato non riesce più né a proferire né a intendere, perché non crede più ai comandamenti celesti, alla solidarietà rischiosa, al contatto empatico con i deboli, al coraggio di andare a vedere di persona, di salire sul calvario, di promettere alleanza a chi grida le proprie piaghe.
Ci sono dei dannati, nel film, e c’è un fiume infernale. L’oceano è diventato un nuovo Stige (Styx in inglese), la palude mitica che ostacolava la strada verso l’oltretomba. L’acqua magica dello Stige rendeva invulnerabile chi vi veniva immerso e incuteva timore negli stessi dei. Nella pellicola, il sogno paradisiaco di Rieke di entrare in contatto con gli elementi primari della natura (Rieke gode del mare, del sole, del vento) e il desiderio di esplorare una flora esuberante e generosa vengono sfidati da un doppio scacco: il male fisico (l’indomabile strapotere delle onde, l’ipotermia e l’inedia dei poveri esuli) e il male morale (l’indifferenza di un occidente tecnologico, la cui bussola morale sembra impazzita).
Il film, quasi un documentario intessuto di pochi dialoghi e accompagnato dai genuini suoni e rumori della traversata (il vento, le vele, la radio, le funi, gli ingranaggi, le onde, le lontane ma insopportabili grida di chi cerca rifugio), è girato per lo più in mare. Appunto, il cinema ci getta in mare, poiché ogni narrazione ci espone a enigmi imprevisti, a contatti empatici traumatici, a inedite possibilità di scelta e cambiamento morale. Possiamo fingere di chiudere gli occhi di fronte alla verità, che la pellicola rivela o fa naufragare. Da soli non ci si salva, né nella vita ordinaria, né al cinema, né su uno yacht. E neppure nei rapporti tra nord e sud del mondo.
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